venerdì 22 novembre 2019

La congrega

Non crederete a ciò che mi è successo oggi. Terrore vero. Devo denunciare.
Ero lì che volevo scrivere un racconto. Parla di un vecchio che prepara l’impasto per la pizza.
Il vecchio è piegato in avanti, ha già controllato la temperatura, ha calcolato il lievito da aggiungere, le quantità di acqua e farina. Conosce il suo mestiere, gli piace sporcarsi le mani, impastare come si faceva un tempo. Ogni volta che – raramente a dire il vero – qualcuno lo passa a salutare, ripete sempre la stessa battuta: “Mi hai beccato con le mani in pasta”, e ride. E impasta, con quelle mani sapienti, mani…
Ecco, io a quel punto dovevo scegliere un altro aggettivo per definire le mani del vecchio. Facile, direte voi. Legittimo, ce ne sono tantissimi di aggettivi, per esempio: mani forti, mani delicate, mani calde, ruvide, vissute, stanche, pesanti, vellutate, subdole, abili, spietate, assassine, chessò… monche! Ecco, mani monche potrei dire. Colpo di scena? Il vecchio impasta con dei moncherini? Esagerato, penso. Poi vengo distratto, sento dei rumori provenire dalle scale.
Saranno i soliti vicini chiassosi, mi dico. Continuo a pensare a un aggettivo da dare a quelle mani. Provo a vederle. Mani grandi, o piccole, mani molli come l’impasto, mani sporche… sì, ho deciso: il vecchio è uno zozzone che impasta con le mani sporche. Ciò renderà l'impasto più saporito. No, troppo banale...
È a questo punto che sfondano la porta. Sfondano la porta di casa mia! Entrano uomini incappucciati, anche dalla finestra, schizzano i vetri, mi devo riparare con le braccia, piombano uomini dal soffitto. Mi circondano, s’impadroniscono della tastiera.
«Chi siete, maledetti malefici malvagi!» urlo.
«Siamo la Congrega» rispondono loro, cortesemente.
«La Congrega? Che Congrega?»
«La Congrega dei racconti sul web.»
Sono sbalordito. Ne avevo sentito parlare, ma avevo creduto fosse la solita bufala. Non replico.
«Tu vuoi scrivere un racconto, ci risulta.»
«Beh. Stavo. Per l'appunto.»
«Eh, stavi, stavi. Cosa stavi scrivendo, le mani…?»
«Le mani… boh, stavo per scrivere "sporche".»
Gli incappucciati si agitano. Confabulano. Bisbigliano. Tramano, osservandomi dalle fessure dei loro passamontagna. Uno di loro, l'incappucciato Alpha, sbatte la tastiera sul pavimento. Tutti i tasti saltano in aria e si sparpagliano a casaccio sulle mattonelle. Eccheccazzo! Sembra uno Scarabeo finito in rissa.
Sono terrorizzato. Quelle lettere lì sul pavimento potrebbero voler dire qualsiasi cosa. Le mani del mio vecchio impastatore rimarranno per sempre senza aggettivo.
E invece ecco che un incappucciato si china, quasi si sdraia sul pavimento e comincia a recuperare alcuni tastini col dito. Altri adepti della Congrega mi tengono fermo; uno di loro mi afferra la testa, me la spreme coi polpastrelli, mi direziona e mi obbliga a guardare.
Con i MIEI tastini della MIA  tastiera hanno formato una parola:

N O D 0 S E.

(La seconda O non c'era, hanno dovuto usare lo zero), ma non capisco comunque... “Nodose”. Cosa caz…
«Mani nodose!» gridano in coro.
Il loro capo avanza verso di me.
«Se vuoi scrivere racconti, se vuoi scrivere racconti pubblicabili, intendo, le mani devono essere nodose. Hai capito? Non c’è altra soluzione. Se vuoi esistere, se non vuoi pestare i piedi alla Congrega dei racconti, ricorda: come sono le mani?»
«Nodose», dico io, che ho capito l’antifona.
«Ti teniamo d’occhio, ragazzo», e mi fa il gesto: quello delle due dita sugli occhi che poi punta come una forchetta verso di me.
Se ne stavano per andare quando quello torna indietro e mi dice «come pesano le cose?»
«Cosa?»
«Ti ho chiesto come pesano le cose, le cose, lo sai come pesano?»
«Cosa?»
«Da che paese vieni?»
«Cosa?»
«Cosa è un paese che non ho mai sentito nominare... Lì parlano la mia lingua?»
«Cosa?»
«La mia lingua, figlio di puttana, tu la sai parlare?»
«Siiiì»
«Allora dimmi: le cose, come sono pesanti?»
«Cosa?»
«Di' cosa un'altra volta! Di' cosa un'altra volta! Ti sfido, due volte, ti sfido figlio di puttana, di' cosa un'altra volta!»
«Come macigni! Le cose pesano come macigni!»
«Bravo! Macigni. Lo vedi che lo sai? Puoi fare strada, ragazzo. Ricapitoliamo: mani?»
«Nodose».
«Come pesano le cose?»
«Come macigni».
«Non c'è altro modo, ragazzo».
Poi sono scomparsi. C'è mancato poco. Ora non lo nego, ho paura. Ma ho voluto raccontarvi questa storia che pesa come un macigno affinché nessuno subisca più quello che ho dovuto subire io. Mi raccomando, se dovete scrivere un racconto, fate attenzione: le mani sono sempre “Nodose”. Fateci caso, non fate cazzate. Non osate.
È stata dura da raccontare, anche perché sono ancora sotto choc e ho dovuto scrivere con le mani tremolanti nodose. Nodose, cazzo. Ho dovuto scrivere con le mani nodose. 

sabato 2 novembre 2019

10 microracconti che finiscono tutti prima che qualcuno si possa far male

Come quei 10 microracconti che finiscono tutti con una bestemmia, anche questi sono solo microracconti, non si fa male nessuno, infatti finiscono prima. 


#1 Patriarcado
Ci sono città in cui si legge, perché fornite di bei salotti, mentre fuori piove. Ci sono città dove non si legge affatto, e si fa sport, vita salutare e si fa tanto all’amore. E poi ci sono città in cui si spara.
Arthur Andrade avrebbe dovuto vivere in una città in cui si fa all'amore, al limite in una in cui si legge, non certo in questa, dove non si fa che sparare.
Per allentare l’ansia causata da tutto quello zolfo, Arthur Andrade scopava senza sosta. E pure bene, a quanto pare. Trattasi di talento, né più né meno. Lo sanno le donne, che - mentre gli uomini sparano - si raccontano tutto. Lo sanno le giovani e lo sa pure Annabelle.
Annabelle: il più bel fiore della città in cui si spara. Ora è sulla bocca di tutti per via delle sue tette così grandi da rasentare il ridicolo, sbocciate da un giorno all’altro scatenando l’ossessiva gelosia di suo papà: il boss della città in cui si spara.
«Perciò, caro Arthur, ti sei voluto scopare quella donna, se donna si può chiamare…»
«Si può senz’altro chiamare donna. No, dico, l’hai vista? Io la amo!»
«Beh, amico mio, io ti do ragione, ma sappi che sarà l’ultima, perché morirai. E come morirai, beh, quello dipenderà dalla fantasia del boss.»
Questo gli dissero e lui ci pensò.
“L’ultima? Che importa! Sarebbe perfetto: fuggire con Annabelle, portare l’amore nella città in cui si legge, amarla nei bei salotti mentre fuori piove... Leggerò qualche libro, bisogna imparare le usanze del posto...”
Mentre pensava così, il boss arrivò. Il boss in persona. Portava una valigia con gli attrezzi del barbecue, alcune corde, un testo di anatomia umana e un quadernino scritto fitto-fitto, con sopra un’etichetta che diceva: ideas para matar Andrade.




#2 Bodyshaming
Sul volo Britainairwais F7983, al 16B sedeva l’avv. Boris Wilhem, compiacendosi del fatto che il 16C fosse rimasto libero dopo il decollo.
Quando accesero il segnale “cinture slacciate”, un’ombra lo destò. Molly Olszewski, proveniente dal 34E, con dita simili a salsicce indicava il sedile vuoto, e con faticose manovre se ne appropriava. Boris sentì lo spazio restringersi, la temperatura alzarsi, e il grasso appiccicaticcio di Molly esercitare una potente pressione contendendogli il poggiabraccio.
«Vede, dov’ero seduta c’era un neonato che piangeva», si scusò Molly.
«Mi faccia passare, mi trasferisco lì», rispose l’avvocato.
La donnacannone dovette alzarsi nuovamente. Wilhem temette che l’aereo potesse piegarsi. Per passare dovette affondare il naso nella schiena grassa di Molly. Si sentì inglobare da quelle grosse chiappe, sgusciò, raggiunse il corridoio e si diresse al 34E.
Al 34D, la neomamma Claudia Sanchez se lo vide arrivare, tolse la sua borsa dal posto libero, e si coprì rapidamente la tetta con cui allattava. Non appena Boris Wilhem si sedette, Claudia sentì olezzo di morto. Il bebè scoppiò a piangere di nuovo.
Normale! Con quella puzza!
Boris sorrise, mostrando una dentatura marcia. Poi pensò di fare una carezzina al poppante che piangeva. Claudia vide quel braccio grinzoso, lento e tremolante dirigersi verso suo figlio, e più avanzava più schiudeva l’ascella, come il coperchio di un forno crematorio.
«Mi scusi», disse alzandosi velocemente col bebè in braccio, «mi vorrei spostare».
Nello stesso istante, Nassir Al Kanuni lasciava il suo sedile, vestito con un thawb nero lungo fino ai piedi, sandali d’agnello e unghie gialle infette. Peloso, pelle scura, barba lunga, occhi neri e sguardo bieco. In fondo al corridoio, Moirin O'brien, l’hostess con la pelle candida e il rossetto rosso come i capelli, lo vide estrarre qualcosa dalla cappelliera. Sgranò gli occhi celesti e si fece il segno della croce.



#3 Famiglia
Quando mi sono sposato con mia moglie, sapevo che avrei dovuto accettare alcune caratteristiche tipiche delle famiglie meridionali. Un uomo del Trentino e una donna napoletana hanno abitudini e mentalità diverse, ma una cosa simile non me la sarei mai aspettata. Me lo confessò come nulla fosse, dopo due anni di matrimonio, mentre metteva i piatti a scolare. E dicendomelo mi aveva guardato come non aveva fatto mai. C’era un collegamento fra i suoi occhi e la sua bocca, elettricità che le friggeva nello sguardo. Mi colpì il contrasto fra le sue pupille accese e le palpebre languide, intorpidite. Una specie di tic sulle labbra, come un aspro sorriso, e mi disse la cosa in modo chiaro: lei e la sua famiglia avevano un appartamento nel cuore di Parigi, dove tenevano un orso bianco.
Ricordo che dopo arrivarono le telefonate di rito. La madre preparò i bagagli, portò una gran quantità di cibo, e suo padre scaldò il motore della macchina. Erano molto indaffarati, ma coordinati. I loro occhi erano sempre su di me, a nutrirsi della mia incredulità. Godendone.
Io non c’ero mai stato a Parigi e sì, faceva freddo, ma come un orso bianco potesse vivere in appartamento, questo non me lo spiegavo.
Difatti dai loro discorsi capii che quest’ultimo esemplare (ne avevano avuti diversi) stava soffrendo molto.
«S'è scipuat nu poc, ultimamente», disse mia suocera, aprendo a chiave la porta.
Udii un rantolo sovrumano. Non volevo entrare. Vedevo maioliche spaccate e macchie di sangue dappertutto. Gli stipiti delle porte sventrati. Sporgendo la testa intravidi un mobile antico, azzoppato, accasciato su un fianco. Sentii un potente respiro provenire da sinistra.
«Entra!» mi diceva dall’interno mio suocero. Mi stava aspettando insieme a sua moglie e alla mia, tenendo la bestia a una catena.
«Ja’, entra!»


#4 Amichetti 
Tornavo verso casa da sola, a una sessantina all’ora. Adocchiai all'incrocio la sagoma di un uomo che stava attraversando col rosso. Calcolai di avere abbastanza tempo per rallentare e frenare con calma. Già il mio piede destro allentava leggermente l’acceleratore, il sinistro era pronto ad affondare la frizione, quando riconobbi, nel volto dell’uomo, quei lineamenti un po' invecchiati di colui che vent'anni prima era stato un mio amichetto. Vincenzino.
Ho tutto il tempo di rallentare, aiutandomi col freno-motore per evitare l’incidente. Ma la mia memoria subentra di prepotenza per ripropormi una rapida successione di ricordi.
C’era la preside che aveva convocato i nostri genitori, e gli stava raccontando quanto aveva scoperto, che da tempo ero vittima delle molestie di Vincenzino. Rimase generica, non specificò i calci in petto, gli sputi in bocca, che mi faceva spogliare nuda davanti a tutta la classe, che mi faceva mangiare i suoi escrementi. Rimasero generici tutti, facendo molti sospiri, sorrisi nervosi, ripetendo più volte “sono bambini”.
Ora ho spazio sufficiente per togliere il piede, scalare, dovrei frenare bruscamente...
Usciti dalla presidenza, il papà di Vincenzino si avvicinò a mio padre e gli disse: «se ti rivedo ti stacco la testa e te la ficco nel culo». Mio padre sbiancò. Fece scena muta. Vincenzino mi sorrise: un sorriso trionfante e cannibale, perché si stava nutrendo del mio, privandomene per anni.
I miei in macchina non dissero una parola. Li sentii poi litigare per giorni, di nascosto da me. Andai in una nuova scuola.
Ora posso schiacciare forte il freno e sterzare con decisione per evitare l’impatto, rischiandone un altro sulle auto parcheggiate, mentre Vincenzino si volta, vede la macchina, non so se riconosce anche me, ma è scomparso quel sorriso dal suo volto, sotto i miei fari.


#5 Lavoro
L'autunno impreziosisce le domeniche assolate, per questo i camerieri non devono lasciarsi scappare i tanti clienti in cerca di tavolini. Vengono a ristorarsi prima del rigido inverno.
Eva è arrivata fin qui dall'Albania. Ha attraversato l'Adriatico per raggiungere territori più ricchi, ha combattuto con camerieri autoctoni e alla fine si è aggiudicata il ruolo di caposala. Sono circa le 12.30 ed è stato occupato l'ultimo tavolino al sole. Il pizzaiolo già volteggia su sé stesso, lanciando microparticelle di farina. Eva guarda Irene (l'extra del fine settimana), lei posa immediatamente il telefono, che non controllerà più fino a fine turno. Un cucciolo di cameriere è al suo primo giorno e già ha sbagliato ad apparecchiare, ci ha messo troppo a spazzare. Eva lo prende per un braccio, gli parla schiettamente, lui scappa di là, anzi no di là. A fine giornata guadagnerà meno di tutti.
Non c'è più tempo da perdere, c'è già la coda, nessuno vuole mangiare dentro, tutti vogliono stare fuori, bisogna prendere i nomi, chiamiamo noi! Essere perentori coi clienti, se no è un attimo che se ne approfittano, consigliare piatti veloci, che mangino in fretta, liberare altri posti. Eva è concentrata, sa che può contare sul gruppo, su Irene fino a un certo punto, il nuovo bisogna sfruttarlo. Chiama un altro tavolo, alza una sedia di corsa, sorvola le teste, schiva un bambino, gli dice bellino, la sedia la porta laggiù, prego signori, Irene, sparecchiami il 4!. Guarda la lista, strilla: Andrea per cinque! Andrea per cinque! Andrea non c'è. Arriva un Michele per due, che s'è messo d'accordo con Eleonora per tre: vogliono dividersi il tavolo da cinque. Eva li ignora, strilla ancora più forte: Andrea per cinque!
S'è svegliato Andrea, stava laggiù. Prego!
Ore 13:15. Se continua così, presto Eva si ammalerà. 


#6 Amore
La frutta è buona. La frutta marcisce.
Anche l'amore è buono.
La coppia di amanti aveva assaporato il dolce dell'amore sussurrato: “amore, vieni qui?”; “amore, mi manchi” o addirittura “amore, ti amo”, per poi, col passare delle stagioni, sputare dalle bocche il disgusto di un amore avariato: “amore, eddai su!”; “amore, ma me lo fai apposta?”, fino a un emblematico - con spostamento dell'amore a destra, lontano dal cuore - “vattenaffanculo, amore!”
Lei aveva da poco letto Baudelaire scrivere che la natura è una foresta di simboli. Vero. Infatti, che il loro amore fosse in rottura, lo simboleggiava un'altra rottura: quella del setto nasale di lui. E che fosse stata lei l'artefice della rottura - quella del setto s'intende - era solo l'ennesima conferma di tali simboli, sempre in agguato come manifesti lungo la strada, che dicevano a grandi lettere: E BASTA! LASCIATEVI!
Non l'aveva fatto esattamente apposta, ma neanche tanto per sbaglio. Successe così: quando lei gli chiese di controllare se il telefonino fosse rimasto in macchina, lui, con la sua tipica flemma, invece di aprire lo sportello si era piegato in avanti per scrutare l'abitacolo da fuori, perciò lei non aveva resistito e, borbottando fra sé “vabbè, faccio da sola, amore”, aveva aperto di scatto la portiera, certa sì di colpirlo - un pochino, giusto per sfizio -, ma non così tanto da fracassargli il setto. Altro simbolo: uomo di pasta frolla.
Il lunedì seguente lei andò a prendere l'auto per recarsi a lavoro. Fece per entrare ma notò il sangue sul finestrino e, di fianco, scoprì il riflesso di sé stessa: sorrideva. Si sentiva soddisfatta.
Lui il giorno prima aveva manomesso i freni.


#7 Gentilezza
All'uomo che sta salendo le scale di questa metro desolata gli è caduto qualcosa. Edgar è il solo ad accorgersene poiché è l'unico passeggero sceso alla stessa fermata, soltanto qualche vagone più indietro. Accelera il passo per raggiungerlo, nonostante debba prendere l'uscita opposta, chiedendosi come abbia fatto quell'uomo a non udire il tonfo causato dall'oggetto, che ora da vicino scopre essere un libro. Probabilmente lo sferragliare del treno aveva coperto il rumore, eppure lui l'aveva percepito chiaramente, e infatti si era voltato, aveva visto le gambe del tizio scomparire verso su, e il libro rimanere sulla banchina a faccia in giù.
«Mi scusi, signore? Mi scusi, le è caduto questo», aveva urlato Edgar alla bocca delle scale mobili, sollevando il volume, un romanzo, la cui immagine di copertina sembrava una continuazione dello squallido paesaggio circostante.
“Morte di un uomo gentile” il titolo.
I passi dello sbadato annunciavano la sua discesa, eppure tardava ad arrivare. Aumentarono di ritmo, risuonando sul ferro delle scale mobili: stava cercando di scendere controcorrente.
“Forse sarebbe educato andargli incontro...” pensa Edgar girando il libro, curiosando intanto sulla quarta.
Stai per scoprire come Edgar morirà, esordisce la trama. Fa sussultare Edgar, che si sente importante... 
Un uomo gentile, per via della sua gentilezza, sta per morire.
I passi sono cessati. L’ultimo dev’essere stato una specie di salto. Si sente una presenza umana dietro al libro. Edgar non ha ancora finito di leggere.
Grazie alla bravura dell'autore, Edgar sei tu. Stai per vivere in prima persona l'esperienza della morte.
Per conoscere l'assassino, i suoi occhi; per scoprire l'arma che userà sul tuo corpo, magari un bastone, un'ascia, una semplice pistola, forse un uncino, un martello, oppure un machete; per ricevere il colpo letale o i molti colpi imprecisi, non dovrai far altro che continuare a leggere. O alzare la testa, adesso.



#8 Il mostro

QUOTIDIANO
“Arriva a 99 il numero delle donne scomparse. Si pensa al racket della prostituzione”

In primavera vado sul corso a guardare le donne. Ho proprio un tavolino riservato: mi consente la visuale a nord con leggera pendenza, a sud controllo la curva, e da via XX settembre certi giorni entra un venticello che alza le sottane. Davanti ho il minimarket, da cui esce spesso la moglie del barista con due buste pesanti, e per portarle deve camminare tutta dritta con la schiena. Splendide le cicliste, ma sono veloci come un'idea. Le commesse non hanno rivali, quelle della profumeria sono truccatissime e lasciano la scia.
Quando una bella donna capisce che la sto guardando, cambia subito espressione, infastidita. Non è che io pretenda di rimorchiare, dico solo che se fossi bello probabilmente mi mostrerebbero almeno gli occhi, invece di guardare in basso o altrove; ricorrerebbero istintivamente a impercettibili movimenti, utili a esibire le loro virtù genetiche; sfoggerebbero salute, si farebbero più belle, insomma. E invece sono brutto, me ne rendo conto. La bellezza non mi riconosce come suo simile, non mi nota, non ricambia lo stupore. In pratica, siccome sono così brutto, tutte con me cercano di essere meno belle. È una vera beffa perché, non solo mi perdo uno spettacolo, non solo il mondo mi restituisce ciò che involontariamente gli mostro (parola spesso associata alla mia persona), ma comincio a credere di sgraziare tutto ciò che osservo. Sono convinto che se rapissi e costringessi 100 belle donne a guardarmi - bene, per tre ore al giorno - nel giro di un mese avrei 100 donne carine, in sei mesi 100 donne così così, tempo due anni e vi restituirò 100 donne orrende come me.


#9 Microracconto Rap
Combatto coi pensieri di suicidio, sono recidivo, recido, radici di pensieri con il litio; invidio chi respira, affogo, nel buio pesto in un rovo, in un rogo. Confesso, d’avecce nella testa il gesto, riflesso del passato, compresso dall’angoscia in una morsa, aspetto, d’avecce un po’ de forza, pe’ abbatte’ l’animale ingabbiato nel mio petto.
Ma solo una cosa so: io non lo farò… c’è qualcuno che m’ha salvato, e nun è dio. Quer matto de mi padre l’ha già fatto, ar posto mio.
Pe nun scoprimme pazzo, nun so’ felice, so’ trattenuto… da na radice: così nun casco dar terazzo, è vero! Ma non posso... volare come un razzo in cielo.
E quindi me viè naturale, vivere affacciato, da vegetale, fa male: invecchiare rimanendo fermo, rimané indifesi come i pupi, ma morti dentro.
La consapevolezza, a sprazzi, a momenti: una marea de cazzi per la testa, il resto so lamenti e protesta. T’arendi, ti fingi morto. Nei giorni di festa, fai pure finta d’esse risorto.
Ma solo una cosa so: io non lo farò… c’è qualcuno che m’ha salvato, e nun è dio. Quer matto de mi padre l’ha già fatto, ar posto mio.
Il frutto non cade lontano, l’albero è in lutto e nessuno je dà na mano, nessuno sente la foresta: le voci che c’ho nella testa. La testa de mi padre sur cemento, il dottore m’ha impedito de fa’ il riconoscimento. Perché mi padre… nun s’è mai pentito, mentre stava per aria non s’è pentito, fino in fondo c’ha messo la faccia: non s'è nemmeno protetto co’ le braccia. E sopra ar corpo c’hanno steso un velo, ar funerale, sul volto c’hanno messo un velo, e io ricordo che ho guardato il cielo. Non s’era mica fermato il cielo. Non c’era in me più nessun pensiero.


#10 Ringraziamenti
Hai appena letto nove microracconti di Ciro Teleffe, questo è il decimo. Hai avuto quindi ben nove, dico nove possibilità per interrompere la lettura, ma non l’hai fatto. Magari hai iniziato per curiosità, o perché sei già affezionato a questo autore. Forse hai letto Kisandostan e ti rendi conto che lo stile qui è diverso...  Oppure hai iniziato a leggere per sfottermi, sei stato tutto il tempo in cerca dell'errore, poi hai continuato perché sono così brevi... ed eccoci qui. Anche se un paio non ti sono piaciuti hai dato una possibilità a quello successivo, che devi ammetterlo: ha ripagato la tua fiducia. Forse ne è valsa la pena, è arrivato un microracconto che ti ha piacevolmente colpito, quello dopo per niente, ma ormai sei al numero 8, tanto vale leggerli tutti. Forse alla fine puoi ritenerti soddisfatt*, se invece non ti sono piaciuti per niente forse sei un po' scem* a stare ancora qui. Ti ringrazio di aver letto e ti invito a rispondere al sondaggino. Ah, se invece sei uno degli amici siculi della mia compagna, di quelli che su facebook non mi mettono mai un like, volevo dirti SUKATI UN PRUNO :) Arrivederci.

Arrivederci.

martedì 27 agosto 2019

10 microracconti che finiscono tutti con una bestemmia


“10 microracconti che finiscono tutti con una bestemmia”. Microracconti perché non superano le 300 parole, perché vai sempre di fretta, perché hai altro da fare, lo so. Però non leggere di fretta. Proprio perché sono corti, leggili piano, fai un respiro, concediti un momento, chiudi le altre app, siediti, comodamente, lascia che tutto vada tranquillamente a fare in culo: sono solo 10 microscopici raccontini, nulla di che e niente di male. Piano-piano. Stai andando piano? Ecco, vai piano.


#1 Un barbone
Forse è il binomio “gigante-buono” ad ingannare chi di me si fida. Mi vedono così grosso e vogliono scherzare con me, forse per l’adrenalina, o forse perché pensano che sarebbe troppo disonesto, da parte mia, usare la mia stazza.
Credono che i chili in più io ce li abbia sulla pazienza. Puntualmente li mando all’ospedale.
Ragazzi, siete tutti così: voi vi approfittate tutti i giorni dei vostri privilegi, e io, che sono un cazzo di barbone, non dovrei rompervi il culo quand’è il mio turno?
Mi vedono per terra, tranquillo che leggo… Leggo quello che capita, classici più che altro. C’è Riccardino della bancarella sotto ai portici che mi presta qualche titolo. Ci sto attento a non rovinarglieli, poi glieli riporto. E dev’essere che mi vedono lì che leggo tranquillo, il grasso nasconde ogni spigolo della mia faccia e mi fa sembrare un tenerone, un bambolotto. Forse è questo. Sarà il mio aspetto a invogliare le persone a parlarmi. Sarà che sto seduto per terra con una pancia enorme e sembro lento ad alzarmi.
L’altro giorno è stato il turno di un ragazzetto di periferia alle prime gitarelle in centro. Stava con gli amichetti, mi ha visto, gli sono sembrato interessante, probabilmente; si è avvicinato con quel cazzo di telefonino e mi voleva fare il video, non so perché, non so che cazzo avesse da ridere. Nel dubbio: pizza in faccia, lungo per terra. Non mi dovete cacare il cazzo, porcoddio.

illustrazione di @pupazzaro



#2 La baracca
Non c’è niente che unisca un popolo meglio della povertà. E se il popolo sono solamente due persone intrappolate improvvisamente per qualche motivo in una baracca, l’unione può diventare davvero solida.
Franco sono settantadue anni che odia Vittorio per una faccenda di terreni confinanti e recinzioni, ma se Vittorio trovasse il modo di rimediare un abbacchio, Franco sarebbe pronto ad abbracciarlo e baciarlo, anzi, non potrebbe farne a meno; e mai abbraccio sarebbe più sincero. E Vittorio, al cui orecchio erano sempre giunte, per vie traverse, le invettive che Franco gli aveva rivolto per anni, riporrebbe ogni rancore e sarebbe pronto perfino a brindare con lui, se solo si trovasse qualcosa da bere.
Fuori piove a dirotto e grandina da due giorni. Tocchi grossi come sampietrini torturano la baracca. La campagna attorno, sottomessa e muta, riceve le ammonizioni del cielo con improvvise frustate. Dopo il lampo non passa un secondo che il tuono rimbomba come il passo di un gigante.
«Secondo la radio ne avremo per tre giorni», dice Vittorio, rivolgendosi a Franco per la prima volta dopo anni, sorridendo involontariamente.
Franco lo guarda con occhi gelidi, che però si sciolgono all'istante. Un angolo della bocca gli va all’insù, come a sancire la pace, che infatti sugella esclamando: «ma porca la madonna!»



#3 Trinità
Qui al numero 3 c’era il racconto più bello di tutta la storia dei racconti. Perché il racconto più bello, irripetibile, irrecuperabile, è sempre quello che viene scritto di getto. Viene scritto di getto e poi cancellato per sbaglio senza avere salvato, porcoddio. E qui la bestemmia può essere doppia perché, se Dio è il salvatore, perché non l’ha salvato, porcoddio?



#4 Inquartato
Stava chiaramente utilizzando il cibo come sedativo. Quando lo stomaco lavora, la mente ha meno energie, innanzitutto. Un’analisi molto semplice, per noi che osserviamo con distacco. Lui di questi semplici meccanismi ne era completamente all’oscuro. Lui apre il frigo e mangia, apre la credenza e mangia, fruga nelle tasche e mangia. Seduto sul divano è dove mangia più spesso. Ora un intruglio intinto col pane. Strappa una pagnotta. Sul polso, fra la mano e il braccio, ha una piega che separa il grasso della mano da quello del braccio. La pelle è diventata liscia come quella di un bimbo. Prima era un figurino. Poi ha perso il lavoro. Dopodiché si è lasciato con la compagna. E gli è morta la madre. Non avevano un bel rapporto e perciò questa notizia non avrebbe dovuto sconvolgerlo più di tanto. Ma si andava a sommare. Poi è venuto a sapere che un suo cugino aveva ottenuto un ottimo lavoro che gli fruttava cinquemila al mese. Non lo vedeva da anni, ma da piccoli giocavano sempre insieme e, ogni volta che le due famiglie s’incontravano, le mamme li mettevano vicini per misurarne le altezze. Neanche questa notizia avrebbe dovuto condizionarlo negativamente: madri vive e posti di lavoro non equamente distribuiti non sono un problema così grave. Poi aveva fatto diversi colloqui, con esito negativo. Oggettivamente non aveva più l’aspetto di un elemento buono da spremere sul lavoro. Sembrava ormai privo di succo.
Arrivò l’inverno, la luce fredda del mattino si posò sul divano, appassito come una prugna sotto al suo peso, nel punto in cui sedeva sempre. Prima di passare dal divano al letto, si guardò allo specchio: aveva meno capelli, più barba, più chili, molti più chili. Con un respiro rumoroso riconobbe sé stesso dentro ai suoi occhi e disse: Porca Madonna.



#5 Una figlia e un padre
«Papà, dove li metto questi?» dice la bambina.
«Ma ammucchiali e buttali là, che ti frega!» risponde il papà.
«Ma mamma dice…»
«Buttali là! Non fa niente. Questi sono i giorni che passi con me. Non li sprechiamo: oggi non hai doveri! Dai che ci facciamo una carbonara…»
«Ma sei disordinato.»
«Lo so, lo so, ha ragione la mamma, tu devi ascoltarla sempre. Le cose che dice sono tutte giuste e ti aiuteranno a vivere meglio, ok? Però lei ti ha tutto il tempo, io solo due giorni a settimana, quindi godiamoceli… I panni poi me li piego, va bene?»
«Ma dai, papà! Te li devi sistemare così poi trovi tutto bello ordinato!»
«Allora, che ti ha detto papà? Che i panni poi me li piego. Dai, vieni qua che adesso inizia pure la partita…»
La bambina indietreggia leggermente.
«Ma io non voglio vedere la partita…» (broncio).
«Ma la partita è bella, appapà. Vabbè, vabbè-vabbè, decidi tu, basta che stiamo insieme… magari facciamo zapping, ogni tanto, che ne dici?»
«No...» (sorriso perfido, ma irresistibile. Da chi l’avrà ereditato? Mistero).
«Sì, amore, vabbè, decidi cosa vuoi vedere. Anzi, rimetti un attimo sulla partita, poi cambiamo. Mi aiuti con la pasta?»
«No!» (si è seduta a tavola, schiena dritta, telecomando in pugno, quant’è bella).
«Ma amore, cos'hai? Dai, metti un attimo sulla partita, guarda, rompi quest’uovo. Papà t’insegna…»
«None.»
«Guarda come si fa: l’hai mai fatto?»
«Lo hai detto tu.»
«Che ho detto?» (espressione viso + mano italiana)
«Lo hai detto tu che oggi non ho doveri.»
«Epperò sei peggio de tu madre, porcod...due.»



#6 Influencer
A vent’anni ero influencer e a 22 non più. Ho iniziato con le foto in cui surfavo. Le spiagge dei surfisti sono bellissime. Postavo foto di viaggi, abiti e cibi esclusivi. Ero bella e sulla cresta dell’onda, davvero.
Un giorno, a Londra, mi hanno tirato l’acido in faccia. Erano miei follower, fa ridere questa cosa? È bastato un bicchiere e mi hanno sfigurata per sempre.
All’inizio ho combattuto, ho continuato a postare con la faccia deturpata. Sono diventata più famosa. Un simbolo. Sembravo davvero convinta, ho reagito alla grande, ho tenuto conferenze motivazionali, mi ero messa in testa che la bellezza fosse tutt’altro. Ho cambiato totalmente messaggio. Ma era una menzogna, che raccontavo prima di tutto a me stessa. Nel frattempo mi sottoponevo a operazioni estetiche costose e inutili. La depressione è piombata su di me come un’onda grande che mi ha tenuta giù per troppo. Ho speso tutto. Ho chiuso gli account e col tempo, poco, la gente ha smesso di chiedersi che fine avessi fatto. Poi arrivi tu e mi vuoi intervistare.
Beh, eccomi: ho quarant’anni, vivo in questo palazzo pieno di tossici e mi drogo. Sono una tossica con la faccia di un mostro, ma questo non crea molto scalpore, fra noi tossici.
Sai che c’è? Questo scrivilo: io mi voglio più bene ora. Odio la vita che facevo, tutto quello che rappresentavo. Odio quella ragazzina che si vantava delle sue fortune e le sbatteva in faccia agli altri.
Spettacolarizzare il cibo, quando c’è gente che non mangia... Vantarsi dei viaggi quando c’è chi muore per varcare un confine. Cazzate. Il cibo più buono è quello che sazia, il vestito migliore è quello più comodo. E il viaggio non è mai una vacanza, hai capito? Come questa vita, dio cane.



#7 Premiazione
Fred Cutton è scrittore, sceneggiatore e regista. Sostiene che il vantaggio del cinema sia quello di poter mostrare in un istante ciò che la letteratura può invece dire, in un istante. Eppure, pensa: “il cinema non dovrebbe mostrare mai e la letteratura non dovrebbe dire mai! Sarebbe meglio rinunciare a certi privilegi, imparando a dire con l’uno e a mostrare con l’altra.”
Appagato da questo pensiero, Fred Cutton si sentì particolarmente ispirato, tanto da produrne altri simili. Accarezzò l’idea d’intraprendere la carriera politica, perché aveva compreso che in politica c’era un urgente bisogno di filosofi. Ottima intuizione, per uno che non era né politico né filosofo.
Grazie a questa sua capacità di estraniarsi volando con la fantasia, non si era accorto che anche il tempo era volato. Guardandosi attorno realizzò di essere seduto in prima fila nel gran teatro in cui si stava svolgendo la premiazione del più importante festival del cinema.
Sul palco c’era la talentuosa attrice Milenia Biürg, con un lungo vestito che rifletteva le luci della ribalta. Aveva una scollatura vistosa ma non volgare. La sua pelle chiara e giovane illuminava la platea, donando al mondo del cinema tutto un aspetto di candore. Le passarono la busta.
Fred Cutton trasalì e si tirò su con la schiena: la bravissima Milenia Biürg aveva appena pronunciato il suo nome insieme a quello di altri candidati. Con le sue dita delicate aprì la busta ed esclamò con gioia: «Ignacio Urrutia, con Glicine d’argento!»
Il pubblico applaudì copiosamente Ignacio e il suo Glicine d’argento: una porcheria nella quale non si faceva altro che mostrare, senza dire alcunché. La telecamera inquadrò Fred Cutton proprio nell’istante in cui Fred Cutton, mostrando il labiale, disse:  Ma porcodd!



#8 Depressione
Sono calmo. Però non sono uno di quei calmi che quando si arrabbia chissà cosa fa. Sono calmo e basta. Depresso, dice il dottore.
Il mio sogno è sempre stato quello di fare il rapinatore. Ma ve lo immaginate un rapinatore depresso? Spalle basse, arma ciondoloni, in mezzo a una banca prova a dire “QUESTA È UNA RAPINA!”, ma non lo sente nessuno perché non tira fuori la voce. Quindi in realtà sta dicendo “questa è… cioè, sarebbe… una rapina…” e mentre lo dice lascia cadere il mento sul petto e se ne sta lì mentre lo sorpassa una vecchierella.
Non riesco a immaginare. Se la polizia m'inseguisse dovrei fuggire? Mi fanno male i muscoli solo a pensarci. C’è un omino nel mio cervello che aziona una leva con su scritto “io non sono in grado”. È così per tutto, dice il dottore. Per quello ci sono delle pasticche che bloccano la leva, addormentano l'omino, ma fanno venire sonno anche a me.
D’altronde, ho bisogno di soldi.
Del resto, non posso lavorare.
L’unica sarebbe una rapina in banca, almeno se mi beccano mi mettono in cella. Tanto è come se già vivessi, in una cella, perché, come ho già detto, sono depresso. Iniziò tutto con un esaurimento nervoso quando avevo ancora il vecchio lavoro, era un periodo in cui non facevo altro che dire, così, in loop: porco dio, porca madonna.



#9 Yaramanda Yogaranda
E dopo tutto quello che mi era successo, mi ero pure ammalata: dolori improvvisi, mancanza di forza, tremori. Dopo un anno i medici non mi avevano diagnosticato nulla. Tant’è che ci pensarono i miei amici, con una sentenza unanime: «fattore psicologico, sei crollata».
«Ecco, vedi, il tuo è senz’altro un trauma non elaborato. Il corpo parla», mi aveva detto Guido, fresco di corso online per diventare yogi, «ti consiglio di andare da Yaramanda Yogaranda, anche detto il cieco. È cieco, ma vede!»
Per provarle tutte, andai dal cieco. Arrivai di fronte a una palazzina liberty, scura, accarezzata su un fianco da due grossi alberi frondosi.
Arrivata al piano la porta era aperta. Entrai e un intenso profumo di rose m’inondò i polmoni. Una luce bianca attraversava la vetrata. I rami degli alberi producevano un gioco rapidissimo di ombre sulla parete e sul pavimento dove, al centro, piccolo piccolo e a gambe incrociate, c'era Yaramanda Yogaranda, il cieco.
Non sapevo dove mettermi. Lui con la sua cecità occupava tutta la stanza, nel senso che avevo la sensazione che percepisse ogni mio movimento.
Disse cose che non poteva sapere, su mia madre, su mio padre, su altri fatti molto intimi, tanto che m’inalberai.
Gli urlai cialtrone, o qualcosa del genere. E il cieco spalancò gli occhi bianchi.
Uscii da lì e andai a cercare Guido a casa sua. Suonai al campanello e cominciai a insultare anche lui, ma lui, con quel fare arrendevole, quella “presenza cosciente” di cui parla sempre, sapeva solo guardarmi e beccarsi la sfuriata.
«Io a Yaramanda non ho raccontato proprio niente», mi disse richiudendo la porta.
Scesi in strada. E all'improvviso riapparve nella mia mente il cieco, fisso, non se ne andava, non come fanno i pensieri normali, rimase per molto tempo in un punto del mio cervello a fissarmi con i suoi occhi bianchi, e a ogni respiro sentivo un fortissimo profumo di fiori. Mi girò forte la testa e pensai: “Cazzo di Buddah!”



#10 Operazione
È come leggere un libro al crepuscolo. Molto lentamente l’oscurità sopraggiunge e la pagina scritta, ad un tratto, è diventata solo un’ombra. Allo stesso modo s’invecchia e il corpo, e la mente, ad un tratto…
Così, nel momento in cui mi appresto a mettere - per la terza volta negli ultimi cinque anni - la mia vita nelle mani del Dottor De Michelis, mi viene in mente invece la morte di mio padre.
Ero solo un ragazzo e quella era una sera inutile d’inverno. Ci eravamo fatti una minestrina. Guardavamo la televisione in silenzio. Il misuratore di share avrebbe potuto basarsi tranquillamente sul numero dei nostri risucchi di minestrina: andavano diminuendo nei momenti di maggior interesse, e aumentavano di ritmo nei frangenti più noiosi. Si partiva da un ritmo medio: un risucchio di minestrina mio padre, uno io. Poi, quando entravano le vallette mezze nude a fare il balletto, i risucchi diminuivano, sparivano.
Finiva il balletto: un risucchio papà, uno io.
Arrivò la pubblicità e ci scatenammo aspirando il brodo, in contemporanea, una raffica di risucchi, che i cucchiai sembravano tre, quattro. Solo che, mentre stavamo entrambi testa bassa sul piatto, una pubblicità disse queste parole: «vieni a scoprire la magia dei nostri prodotti!»
Alzai la testa verso il televisore, ma lo schermo era nero fra una réclame e l’altra. Perciò continuai a mangiare. Ma si sentiva solo un risucchio di minestra. Un solo risucchio di minestra durante la pubblicità non si era mai sentito. Così mi girai per vedere se mio padre avesse finito ed era lì: col collo all’indietro sullo schienale e gli occhi spalancati, il suo polso era sul bordo del piatto e la mano annegata nella minestra, insieme al cucchiaio. Mi alzai di scatto dalla sedia e gridai solamente: porcoddio!

illustrazione di @pupazzaro

venerdì 21 giugno 2019

Il giorno della cimetta

«Scusate per la lunghezza di questo racconto, poiché non ho avuto tempo di farlo più corto.»



Non so dove sono. Non so perché non so dove sono. Non so cosa sto pensando né se sto pensando veramente. Sento solo caldo e stringo gli occhi al sole. Davanti a me c’è un muro mezzo diroccato assediato dall’erba. Sul muro stanno sopravvissute le mattonelle valenziane, che per il colore dello smalto e il caldo che fa, ho sperato per un attimo fossero di ghiaccio. Non sono di ghiaccio, ma spingendoci sopra una guancia posso dire che almeno sono fresche. Mattonelle valenziane. Eppure questa non è la mia cara città spagnola. Mi arrivano all’orecchio vocali impastate che odorano di zagara. Arrivano con un’eco intrisa di fritto e melanzane. «Panelle, panelle calde panelle» dice un omino poggiato alla lapa, giù in fondo alla via.
Dietro la curva un rumore di sfasciume anticipa l’apparizione di un autobus, che sulla fronte tiene scritto Siracusa-Palermo. Si ferma, spegne il motore. Il sole è così perpendicolare che il bestione non fa ombra alcuna, se non esattamente sotto la sua pancia.

Dunque, sono in Sicilia. Ma perché?
Mentre il calore squaglia – oltre che l’asfalto – l’ambra che imprigiona i miei ricordi, passa un picciotto niuru niuru, ma italiano eh! niuru siciliano, ci mancherebbe, che fa le impennate col motorino. Pem, pem pem. Mentre impenna gira da un lato e dall’altro la ruota anteriore, come sfoggio ulteriore di destrezza. Pem, pem pem.
Io lo guardo e me ne sto seduto per terra con le mani in testa. Mi passo le dita fra i capelli, mi blocco, perché in un punto trovo la pelle e non i capelli: una precisa linea retta, calva, come un colpo d’accetta.
Forse ricordo.
Stamattina, ieri, ieri mattina, mi ricordo che stavo cercando una lametta, mi ha chiamato al telefono la mia zita. Donna affettuosa ma determinata è. L’avevo accompagnata e lasciata poco prima dal parrucchiere, sì, mi ricordo. E quando sono rientrato a casa di sua zia lei mi ha richiamato: «vieni, vieni, raggiungimi qui, che te la definiscono loro la barba, mentre mi fanno la piega a me, dai. Ma vieni subito, ché poi chiudono per pranzo». Mi pare di aver risposto «non c’è bisogno, faccio con la lametta», ma donna determinata prima che affettuosa è.
Ho percorso la lunga via, che era completamente infiorata da una primavera che aveva latitato per tutta la primavera, ma che poi si era presentata, sull’uscio dell’estate, come una dragqueen su un carro del pride, adornata di piume e le braccia all’insù, gridando “tadàn!”
Fiori e macchine. Confusione. Il problema di Palermo è chiaramente il traffico.
Arrivo davanti al parrucchiere, tale Barrucieddu. Io mi credevo fosse un negozietto a conduzione familiare, ma apro la porta e sento una specie di sirena: «miiiiiiiiii», come quelle porte che appena entri suonano. Ho richiuso la porta e ho udito l’allarme completo: «miiiiiiiiinchia, è arrivato lo scrittore!» La sirena, mezza donna mezza parrucchiera, era la proprietaria della baracca. Donna in carne e cumannera, caschetto biondo platino, sottovuoto in un vestito nero di latex. Dotata di frusta, stimolava a scudisciate shampisti e parrucchieri.
La Sicilia è più matriarcale di quanto non si pensi.

«Mi hanno già spiegato, non mi devi dire niente», mi disse, «la tua signora – pausa – è al piano di sopra. Tu – pausa – qua devi stare.»

«Dove mi devo mettere?»

«Accomodati lì!»


Mi giro e vedo gli spalti: il negozietto a conduzione familiare era grosso come uno stadio.
«Quand’è il tuo turno ti chiama lui», e indica un picciotto niuru niuru, sicano, lampadato, mica niuru vero, ci mancherebbe, che faceva le impennate col motorino e passava a prendere i clienti per accompagnarli fino alle postazioni. Pem, pem pem. Ora mi ricordo. Mi ricordo l’orizzonte dove beccavano i becchi delle pinzette, svolazzavano le sopracciglia con le ali dei gabbiani, seducendo sé stesse agli specchi, mentre folti ciuffi di capelli migravano verso i phon. Correnti di scirocco sulle chiome nere. Cascate d’acqua e spuma scrosciavano in sottofondo, mentre il reggaeton pompava dalle casse.

“Dov’è la mia compagna?” ricordo di aver pensato.

A quel punto la signora Barrucieddu è passata in mezzo alla sala, moltiplicando all’infinito la sua immagine nel perimetro di specchi. Sollevava un cartello con scritto “2nd round”. E tutti gli shampisti, gli unghisti, i sopraccigliatori, i barbieri, si sono scambiati i clienti e le postazioni, con una coordinazione che diede alla sala tutto un movimento da telaio.
Pem, pem pem, «monta!» mi disse il picciotto su una ruota. Io non ebbi alternativa, e al volo montai.

***

«Panelle, panelle calde panelle» ripete l’omino poggiato alla lapa. Pem, pem pem, lo raggiunge il picciotto niuru. Parlano. Mi sembra puntino le loro parole verso di me. Mi sento addosso l’occhio del picciotto, mi guarda e addenta un panino con le crocchè. Sento il sole caldo sulla faccia. Giro lo sguardo, non vedo niente: la luce rende tutto bianco.

Ora ricordo. Non vedevo niente, avevo un panno bollente sulla faccia che mi tappava gli occhi e rendeva tutto nero. Poi hanno tolto il panno e ho visto il barbiere, e ho sentito il fresco mentolo sulla pelle. Rapide sciabolate di lametta. Barba sistemata.

«A Torino – pausa – barbieri bravi – pausa – non ce ne sono!» sentenziò la signora Barrucieddu. Aveva parenti al nord, la signora Barrucieddu, ed era stata informata dei nostri spostamenti dalla mia zita. Già, sto ricordando tutto: siamo partiti da Torino perché la mia zita vive lì, ma ha parenti qui. Giusto. È siciliana, perciò siamo venuti per qualcosa che ha a che fare coi suoi parenti…

«Oggi giornata di matrioni è! Sei di matrimonio?» mi chiese il barbiere.
“Di matrimonio?” pensai. «Sì», risposi, «si sposa il cugino carnale della mia compagna…» Mi era parso che il termine “carnale” donasse alla mia frase un tono più familiare, più gastronomico, più siciliano, ecco. Bedda carnazza. La signora Barrucieddu guardò il barbiere e disse: «continentali… i continentali sono gentili – pausa – ma non capiscono niente! Rrosario, facci la sfumatura qua dietro, poi ci fai una bella rriga laterale. Hai capito, Rrosario?»
Rosario aveva capito perfettamente. Lo dedussi dallo sguardo serio e dal tono deciso col quale mi chiese: «lo vuoi un caffè?»
«Un caffè non si rifiuta mai», risposi io.
«Picciotto! Un caffè al signore!» disse Rosario al centauro, e sottovoce: «continentali…»
Pem, pem pem. È arrivato il caffè. L’ho bevuto. E poi non ricordo.

Anzi sì, mi ricordo: Rosario ha fatto ruotare la poltrona sulla quale dormivo. Ho aperto gli occhi e ho visto la mia faccia allo specchio. Parevo un altro, bello, un calciatore, sembrava perfino che avessi più capelli. «Ma come hai fatto, Rosario?»
«A Torino, barbieri bravi – pausa – non ce ne sono.»
E mi aveva fatto questa riga da una parte. Con la lametta. Un centimetro e mezzo di larghezza, questa linea rasata. Ecco cosa ho in testa: non un colpo d’accetta, ma un vezzo. Che va di moda. Infatti ero più bello, andando di moda. E avevo tutta la testa rasata e sfumata. Rosario mi ha spiegato che è meglio. Poi quando ricresce la peluria sul collo ricresce insieme a tutto e non si nota. Era uno preparato, in quanto a capelli, Rosario.
Mi ha in indicato con la mano la scala a chiocciola.
Dal piano di sopra scendeva la mia zita. Il reggeaton si trasformò subito in una specie di neomelodico campano, molto in voga a Palermo.


Mammamì quant si bell, Zingarella mia
Tu me par’a cerasella, zingarella mia
Uééé, zingara gitana, femmena rumeeena
Uééé, ‘o ffuoc mio è p semp, ‘o sue fin’e diman…


Lei scendeva senza muovere la testa, per non scompigliare un’acconciatura che parevano tre. La signora Barriucieddu la prese sottobraccio e l’accompagnò da me e Rosario, che attendevamo sull’altare… ehm, volevo dire alla cassa. Spendemmo un matrim… ancora, un patrimonio, spendemmo un patrimonio. Sono confuso.

Il matrimonio, certo, del cugino carnale. Ci siamo vestiti a festa di corsa, senza scompigliare l’acconciatura, sempre correndo, abbiamo raggiunto la chiesa. La chiesa di quartiere, frequentata fin da piccolo dal cugino carnale, stava vicino a quel complesso di case popolari chiamato lo Zen. Ricordo di aver pensato a un conflitto religioso, ma mi sono subito distratto con l’omino che, sulla porta della chiesa, ripeteva la litania: «panelle, panelle calde panelle…»
Stavano tutti a prendere le panelle. Le acquasantiere erano senz’acqua, ma piene d’olio per farci la scarpetta. Ci inzuppavano il pane, ci facevano il segno e poi se lo mangiavano e amen. Io ho fatto esattamente quello che facevano tutti. Poi è arrivata la sposa, è partita la messa. E alzati, e siediti, e sia lodato, e scambiati un segno di pace. Bacia chiunque. Lo sposo bacia la sposa. E poi il prete ha sollevato l’ostia. E io l’ho visto: sotto l’abito talare aveva un pantalone nero di latex. E poi quel caschetto biondo platino mi ricordava… ha spezzato l’ostia e ha detto: «prendete e mangiatene tutti – pausa – è piena di rricotta!»
Allora io mi sono messo in fila, ma solo perché mi piace la ricotta, e ho mangiato l’ostia. Stavano pure le gocce di cioccolato. Il chierichetto, niuru niuru, mi guardava e rideva e col labiale mi diceva «pem, pem pem».
Poi siamo andati, leccandoci i baffi, fuori la chiesa, e l’omino delle panelle ci ha fornito le arancine.

«Queste non le devi mangiare», mi spiegò Rosario.
«Rosario, ma che ci fai qui?»
«Cugino carnale del cugino carnale sono. Queste vanno tirate agli sposi quando escono», e poi sottovoce «continentali…»
Uscirono gli sposi e partì la sassaiola di arancine. Quando i novelli stramazzarono al suolo, qualcuno gridò: «tutti al ristorante!»

***


L’omino delle panelle, giù in fondo alla via, ha chiuso la lapa, l’ha accesa. Pure il picciotto ha riacceso il motorino. Stanno venendo verso di me. Chissene frega. Non ce la faccio ad alzarmi. Porgo l’altra guancia sulle fresche mattonelle valenziane, e mentre si avvicina quest’odore di fritto, si avvicinano pure altri ricordi. Tutti di cibo.
Quanto ho mangiato al matrimonio? Al primo giro di abbuffet ero già esausto. E poi avevo bevuto, tutto ciò che passava io lo bevevo, perché non conoscevo nessuno e mi vergognavo. C’era un picciotto niuru niuru, sicilianissimo, che passava col vassoio e veniva sempre da me. Sempre da me. Mi dava da bere, da mangiare, sempre da me. E io mi cafuddai tutte cose, senza ritegno. Mi tenevo la bocca occupata per evitare così di parlare con gli altri invitati.
Il gruppo dal vivo intanto cantava:


Mammamì quant si bell, Zingarella mia
Tu me par’a cerasella, zingarella mia
Uééé, zingara gitana, femmena rumeeena
Uééé, ‘o ffuoc mio è p semp, ‘o sue fin’e diman…


E dopo la cena al tavolo di cento portate, il cantante ha detto: «gli invitati sono pregati di tornare all’abbuffet, dove verrà tagliata la torta e verranno serviti i dolci».
Siamo tornati all’abbuffet. Hanno sparato i fuochi d’artificio e gli sposi hanno tagliato la torta. Io, mi ricordo, ho snobbato la torta e ho puntato i miei dolci preferiti: le cassatine. Ero pieno fino in gola, ma quelle erano cassatine, non minne di sant’Agata catanesi, cassatine palermitane, con la pasta martorana verde. Che io non ci rinuncio neanche se sto per vomitare. Non ci rinuncio, io. E le ho mangiate, una dopo l’altra. E mi si chiudevano gli occhi, vedevo davanti a me il cameriere niuru niuru che m’incitava e mi faceva cenno di seguirlo. Il cameriere niuru niuro, che mi pareva uguale al chierichetto niuru niuru, al picciotto niuru niuru su una ruota. Mi guardava col sorriso e mi diceva a voce «pem, pem pem, tu devi digerire, ti facciamo digerire noi…» e mi ha portato sul retro con gli altri camerieri che stavano fumando erba. Mi ha detto «fuma questa, è roba nostra, fatta in casa», e mi ha mostrato una cimetta d’erba più verde della pasta martorana.
L’ha sbriciolata, al volo l’ha girata e me l’ha passata.
«Chi l’ariccia, l’appiccia» gli ho detto io, praticamente ruttando.
«Vai tranquillo!» mi ha ordinato lui, e poi a bassa voce: «continentali…», c’era pure Rosario che mi guardava e mi diceva: «fuma, fuma!»
Di Rosario mi sono fidato. Ho fumato. Non ho mai sentito nulla di più potente. Dopo tre tiri ho guardato il riflesso del mio volto sulle finestre della cucina: la faccia mi era diventata colore di zolfo, tremavo. Restai per un attimo sospeso, come tirato su per i capelli da una mano invisibile; mi cadde la canna di mano e sulla canna lentamente mi afflosciai.

***

Pem, pem pem. Stacco la guancia dalle mattonelle valenziane e davanti a me mi trovo il picciotto niuru niuru sul motorino, e l’omino delle panelle appoggiato alla lapa. Mi giro, l’autobus con scritto in fronte Siracusa-Palermo si piega dal lato della porta, e una volta scesa la signora Barrucieddu, si raddrizza. Dietro di lei compare Rosario. Guardo le loro facce che sembrano facce di ciechi, senza sguardo.



«Lo sai dove ti trovi?» mi dice l’omino delle panelle.
«No», gli rispondo, con occhi di sarda morta.
«Al chiarchiaro, ti trovi. L’hai letto Sciascia?»
«Lo devo leggere, ancora.»
«Eh. Leggilo – pausa – se avrai tempo…» mi dice il picciotto niuru, scatenando le risatine di tutti.

Ho paura. Per la prima volta da quando mi sono svegliato, sono abbastanza sveglio da avere paura. Il mio cuore ha un guizzo doloroso, come del coniglio in bocca al cane.
Mi vergogno di quello che mi ha suggerito il pensiero. In questo momento penso “polizia”. E immediatamente sento una sirena, che mi squarcia la mente come un’iniezione di speranza, «Miiiiiiiiiii», ma la sirena ha continuato: «miiiiiiiiinchia! Lo scrittore dei mie coglioni!»
«Salve, signora Barrucieddu»
«Ma quale minchia di signora Barrucieddu! Lo sai chi sono io?»
«Il prete?» dissi, scatenando altre risatine.
«Ma chi prete e prete! Questo non ci ha capito niente!»
Non avevo capito niente: l’omino della lapa, sempre co ste panelle; Rosario, pure al matrimonio e ora anche qui; il picciotto niuru niuru co sto motorino, pem pem, uguale al chierichetto e al cameriere…
«Ciro ti chiami – pausa – è vero?»
«Sì, sì, vabbè… è il mio nome di penna.»
«Hai sentito, Rrosario? Il suo nome di penna. Ma perché, che vorresti fare tu, dicci – pausa – dicci, dicci!»
«No, vabbè. Niente.»
«No, dicci, dicci! Se sei un uomo.»
«Lo scrittore!»
Silenzio. «Ntz», disse l’omino della lapa.
«Lo scrittore vuole fare, lo scrittore. Santa Madonna! C’è cascato come in una pentola il cappone. Lo scrittore! Terrore della spietata inquisizione, della nera semenza della scrittura. Bianca campagna, nera semenza: l’uomo che la fa, sempre la pensa. E tu ti credevi di alzarti un mattino e diventare scrittore? Come ti sei permesso, di scrivere un manoscritto, rivederlo, correggerlo, farti disegnare una copertina come la volevi, ma soprattutto – pausa – come minchia ti sei permesso di pubblicarlo? Ma lo sai chi siamo noi? Eh?»
«Non ne ho idea.»
«È chiaro che non ne hai idea. Guardami qua», disse la signora Barrucieddu: «io sono l’editoria! Hai capito? Mi conoscevi?»
«No, non la conoscevo. E ancora non è che…»
«Statti zitto! E lo sai chi è lui?» indicando il picciotto niuru niuru, «è la discibbuzziòne! E lui delle panelle? È le librerie che non ti s’inculeranno mai. Capisti?»
«Ma, ma... io volevo solo…»
«E Rrosario, questo professionista qua, lo sai chi è? È il maccheting; e pure i blog di letteratura; le rriviste; i concorsi letterari, che come le librerie – pausa – non ti s’inculeranno mai!»
«Ma… ma perché?»
«Pecché dovevi prima passare da noi. Hai capito? Ci dovevi chiedere il pemmesso. Capisti?»
E Rosario mi punta in faccia la lupara.
«Va bene, va bene ho capito, cancello tutto, ma per favore, non uccidetemi, cancello tutto…»
L’omino delle panelle apre bocca e dice: «no. Non ci piacciono i pentiti. Ormai hai scritto. Le parole non sono come i cani cui si può fischiare a richiamarli».
«Solo una cosa ti può salvare», disse Rosario.
Io non parlai, ma si capiva che attendevo la risposta come un naufrago la riva.
«Hai bisogno della nossra rrecenziòne.»
“La recensione? Sì, mi serve!” pensai.
«Tutti hanno bisogno di una buona rrecenziòne. Noi ti offriamo la nossra rrecenziòne. Altrimenti ti può succedere, così per caso, che qualcuno viene e ti lascia una cattiva rrecenziòne. Hai capito?»
«Ho capito. Capito. Ma che devo fare?»
«Tutto ci devi dare, hai capito? Tanto peccominciari alla signora Barrucieddu c’hadda dari i diritti. Quello che hai scritto – pausa – diventa di sua proprietà. Poi lei sa come spattire i guadagni col picciotto della moto pure, eh! Perché – pausa – senza benzina lo vuoi lasciare? E poi artri piccioli ce li diamo al panellaro, e pure a me, certo!»
«E io?»
«Miiiinchia, tu diventi uno scrittore. Il tuo sogno! Non sei contento?»
«Sì!»

***

E così sono diventato un vero scrittore. Il mio libro è stato pubblicizzato in televisione; sta sempre bell’esposto nelle librerie, nei reparti dei “consigli”; sui manifesti per strada; e la gente, a forza di vederlo, non solo si è accorta della sua esistenza, ma si è anche convinta che sia un capolavoro. Organizzano eventi dove si creano delle file lunghissime, lunghe come da Siracusa a Palermo, di gente che vuole solo un mio autografo sul libro.
Io continuo a non avere un soldo, ma sono un grande scrittore! Devo dire grazie ai miei amici, che mi hanno offerto la loro rrecensione e hanno contattato a loro volta i loro amici per ottenere più rrecensioni. Eccone alcune:




Anche da parte di scrittori di grande successo.






E infine hanno detto a tutti dove si può comprare e la gente l'ha comprato. Perché glielo hanno detto talmente tante di quelle volte che alla fine la gente lo ha comprato. Gli hanno lasciato questo link così tante volte che alla fine la gente si è decisa. Gli hanno spiegato ripetutamente che c'è sia l'ebook che il cartaceo, che poi gli è entrato in testa. Una cantilena. Hanno ripetuto i link, e ancora e ancora. Che petulanti! Eccoli qui:
E-book -- https://www.amazon.it/dp/B07SD8FS9N
Cartaceo-- https://www.amazon.it/dp/1097608220