venerdì 21 giugno 2019

Il giorno della cimetta

«Scusate per la lunghezza di questo racconto, poiché non ho avuto tempo di farlo più corto.»



Non so dove sono. Non so perché non so dove sono. Non so cosa sto pensando né se sto pensando veramente. Sento solo caldo e stringo gli occhi al sole. Davanti a me c’è un muro mezzo diroccato assediato dall’erba. Sul muro stanno sopravvissute le mattonelle valenziane, che per il colore dello smalto e il caldo che fa, ho sperato per un attimo fossero di ghiaccio. Non sono di ghiaccio, ma spingendoci sopra una guancia posso dire che almeno sono fresche. Mattonelle valenziane. Eppure questa non è la mia cara città spagnola. Mi arrivano all’orecchio vocali impastate che odorano di zagara. Arrivano con un’eco intrisa di fritto e melanzane. «Panelle, panelle calde panelle» dice un omino poggiato alla lapa, giù in fondo alla via.
Dietro la curva un rumore di sfasciume anticipa l’apparizione di un autobus, che sulla fronte tiene scritto Siracusa-Palermo. Si ferma, spegne il motore. Il sole è così perpendicolare che il bestione non fa ombra alcuna, se non esattamente sotto la sua pancia.

Dunque, sono in Sicilia. Ma perché?
Mentre il calore squaglia – oltre che l’asfalto – l’ambra che imprigiona i miei ricordi, passa un picciotto niuru niuru, ma italiano eh! niuru siciliano, ci mancherebbe, che fa le impennate col motorino. Pem, pem pem. Mentre impenna gira da un lato e dall’altro la ruota anteriore, come sfoggio ulteriore di destrezza. Pem, pem pem.
Io lo guardo e me ne sto seduto per terra con le mani in testa. Mi passo le dita fra i capelli, mi blocco, perché in un punto trovo la pelle e non i capelli: una precisa linea retta, calva, come un colpo d’accetta.
Forse ricordo.
Stamattina, ieri, ieri mattina, mi ricordo che stavo cercando una lametta, mi ha chiamato al telefono la mia zita. Donna affettuosa ma determinata è. L’avevo accompagnata e lasciata poco prima dal parrucchiere, sì, mi ricordo. E quando sono rientrato a casa di sua zia lei mi ha richiamato: «vieni, vieni, raggiungimi qui, che te la definiscono loro la barba, mentre mi fanno la piega a me, dai. Ma vieni subito, ché poi chiudono per pranzo». Mi pare di aver risposto «non c’è bisogno, faccio con la lametta», ma donna determinata prima che affettuosa è.
Ho percorso la lunga via, che era completamente infiorata da una primavera che aveva latitato per tutta la primavera, ma che poi si era presentata, sull’uscio dell’estate, come una dragqueen su un carro del pride, adornata di piume e le braccia all’insù, gridando “tadàn!”
Fiori e macchine. Confusione. Il problema di Palermo è chiaramente il traffico.
Arrivo davanti al parrucchiere, tale Barrucieddu. Io mi credevo fosse un negozietto a conduzione familiare, ma apro la porta e sento una specie di sirena: «miiiiiiiiii», come quelle porte che appena entri suonano. Ho richiuso la porta e ho udito l’allarme completo: «miiiiiiiiinchia, è arrivato lo scrittore!» La sirena, mezza donna mezza parrucchiera, era la proprietaria della baracca. Donna in carne e cumannera, caschetto biondo platino, sottovuoto in un vestito nero di latex. Dotata di frusta, stimolava a scudisciate shampisti e parrucchieri.
La Sicilia è più matriarcale di quanto non si pensi.

«Mi hanno già spiegato, non mi devi dire niente», mi disse, «la tua signora – pausa – è al piano di sopra. Tu – pausa – qua devi stare.»

«Dove mi devo mettere?»

«Accomodati lì!»


Mi giro e vedo gli spalti: il negozietto a conduzione familiare era grosso come uno stadio.
«Quand’è il tuo turno ti chiama lui», e indica un picciotto niuru niuru, sicano, lampadato, mica niuru vero, ci mancherebbe, che faceva le impennate col motorino e passava a prendere i clienti per accompagnarli fino alle postazioni. Pem, pem pem. Ora mi ricordo. Mi ricordo l’orizzonte dove beccavano i becchi delle pinzette, svolazzavano le sopracciglia con le ali dei gabbiani, seducendo sé stesse agli specchi, mentre folti ciuffi di capelli migravano verso i phon. Correnti di scirocco sulle chiome nere. Cascate d’acqua e spuma scrosciavano in sottofondo, mentre il reggaeton pompava dalle casse.

“Dov’è la mia compagna?” ricordo di aver pensato.

A quel punto la signora Barrucieddu è passata in mezzo alla sala, moltiplicando all’infinito la sua immagine nel perimetro di specchi. Sollevava un cartello con scritto “2nd round”. E tutti gli shampisti, gli unghisti, i sopraccigliatori, i barbieri, si sono scambiati i clienti e le postazioni, con una coordinazione che diede alla sala tutto un movimento da telaio.
Pem, pem pem, «monta!» mi disse il picciotto su una ruota. Io non ebbi alternativa, e al volo montai.

***

«Panelle, panelle calde panelle» ripete l’omino poggiato alla lapa. Pem, pem pem, lo raggiunge il picciotto niuru. Parlano. Mi sembra puntino le loro parole verso di me. Mi sento addosso l’occhio del picciotto, mi guarda e addenta un panino con le crocchè. Sento il sole caldo sulla faccia. Giro lo sguardo, non vedo niente: la luce rende tutto bianco.

Ora ricordo. Non vedevo niente, avevo un panno bollente sulla faccia che mi tappava gli occhi e rendeva tutto nero. Poi hanno tolto il panno e ho visto il barbiere, e ho sentito il fresco mentolo sulla pelle. Rapide sciabolate di lametta. Barba sistemata.

«A Torino – pausa – barbieri bravi – pausa – non ce ne sono!» sentenziò la signora Barrucieddu. Aveva parenti al nord, la signora Barrucieddu, ed era stata informata dei nostri spostamenti dalla mia zita. Già, sto ricordando tutto: siamo partiti da Torino perché la mia zita vive lì, ma ha parenti qui. Giusto. È siciliana, perciò siamo venuti per qualcosa che ha a che fare coi suoi parenti…

«Oggi giornata di matrioni è! Sei di matrimonio?» mi chiese il barbiere.
“Di matrimonio?” pensai. «Sì», risposi, «si sposa il cugino carnale della mia compagna…» Mi era parso che il termine “carnale” donasse alla mia frase un tono più familiare, più gastronomico, più siciliano, ecco. Bedda carnazza. La signora Barrucieddu guardò il barbiere e disse: «continentali… i continentali sono gentili – pausa – ma non capiscono niente! Rrosario, facci la sfumatura qua dietro, poi ci fai una bella rriga laterale. Hai capito, Rrosario?»
Rosario aveva capito perfettamente. Lo dedussi dallo sguardo serio e dal tono deciso col quale mi chiese: «lo vuoi un caffè?»
«Un caffè non si rifiuta mai», risposi io.
«Picciotto! Un caffè al signore!» disse Rosario al centauro, e sottovoce: «continentali…»
Pem, pem pem. È arrivato il caffè. L’ho bevuto. E poi non ricordo.

Anzi sì, mi ricordo: Rosario ha fatto ruotare la poltrona sulla quale dormivo. Ho aperto gli occhi e ho visto la mia faccia allo specchio. Parevo un altro, bello, un calciatore, sembrava perfino che avessi più capelli. «Ma come hai fatto, Rosario?»
«A Torino, barbieri bravi – pausa – non ce ne sono.»
E mi aveva fatto questa riga da una parte. Con la lametta. Un centimetro e mezzo di larghezza, questa linea rasata. Ecco cosa ho in testa: non un colpo d’accetta, ma un vezzo. Che va di moda. Infatti ero più bello, andando di moda. E avevo tutta la testa rasata e sfumata. Rosario mi ha spiegato che è meglio. Poi quando ricresce la peluria sul collo ricresce insieme a tutto e non si nota. Era uno preparato, in quanto a capelli, Rosario.
Mi ha in indicato con la mano la scala a chiocciola.
Dal piano di sopra scendeva la mia zita. Il reggeaton si trasformò subito in una specie di neomelodico campano, molto in voga a Palermo.


Mammamì quant si bell, Zingarella mia
Tu me par’a cerasella, zingarella mia
Uééé, zingara gitana, femmena rumeeena
Uééé, ‘o ffuoc mio è p semp, ‘o sue fin’e diman…


Lei scendeva senza muovere la testa, per non scompigliare un’acconciatura che parevano tre. La signora Barriucieddu la prese sottobraccio e l’accompagnò da me e Rosario, che attendevamo sull’altare… ehm, volevo dire alla cassa. Spendemmo un matrim… ancora, un patrimonio, spendemmo un patrimonio. Sono confuso.

Il matrimonio, certo, del cugino carnale. Ci siamo vestiti a festa di corsa, senza scompigliare l’acconciatura, sempre correndo, abbiamo raggiunto la chiesa. La chiesa di quartiere, frequentata fin da piccolo dal cugino carnale, stava vicino a quel complesso di case popolari chiamato lo Zen. Ricordo di aver pensato a un conflitto religioso, ma mi sono subito distratto con l’omino che, sulla porta della chiesa, ripeteva la litania: «panelle, panelle calde panelle…»
Stavano tutti a prendere le panelle. Le acquasantiere erano senz’acqua, ma piene d’olio per farci la scarpetta. Ci inzuppavano il pane, ci facevano il segno e poi se lo mangiavano e amen. Io ho fatto esattamente quello che facevano tutti. Poi è arrivata la sposa, è partita la messa. E alzati, e siediti, e sia lodato, e scambiati un segno di pace. Bacia chiunque. Lo sposo bacia la sposa. E poi il prete ha sollevato l’ostia. E io l’ho visto: sotto l’abito talare aveva un pantalone nero di latex. E poi quel caschetto biondo platino mi ricordava… ha spezzato l’ostia e ha detto: «prendete e mangiatene tutti – pausa – è piena di rricotta!»
Allora io mi sono messo in fila, ma solo perché mi piace la ricotta, e ho mangiato l’ostia. Stavano pure le gocce di cioccolato. Il chierichetto, niuru niuru, mi guardava e rideva e col labiale mi diceva «pem, pem pem».
Poi siamo andati, leccandoci i baffi, fuori la chiesa, e l’omino delle panelle ci ha fornito le arancine.

«Queste non le devi mangiare», mi spiegò Rosario.
«Rosario, ma che ci fai qui?»
«Cugino carnale del cugino carnale sono. Queste vanno tirate agli sposi quando escono», e poi sottovoce «continentali…»
Uscirono gli sposi e partì la sassaiola di arancine. Quando i novelli stramazzarono al suolo, qualcuno gridò: «tutti al ristorante!»

***


L’omino delle panelle, giù in fondo alla via, ha chiuso la lapa, l’ha accesa. Pure il picciotto ha riacceso il motorino. Stanno venendo verso di me. Chissene frega. Non ce la faccio ad alzarmi. Porgo l’altra guancia sulle fresche mattonelle valenziane, e mentre si avvicina quest’odore di fritto, si avvicinano pure altri ricordi. Tutti di cibo.
Quanto ho mangiato al matrimonio? Al primo giro di abbuffet ero già esausto. E poi avevo bevuto, tutto ciò che passava io lo bevevo, perché non conoscevo nessuno e mi vergognavo. C’era un picciotto niuru niuru, sicilianissimo, che passava col vassoio e veniva sempre da me. Sempre da me. Mi dava da bere, da mangiare, sempre da me. E io mi cafuddai tutte cose, senza ritegno. Mi tenevo la bocca occupata per evitare così di parlare con gli altri invitati.
Il gruppo dal vivo intanto cantava:


Mammamì quant si bell, Zingarella mia
Tu me par’a cerasella, zingarella mia
Uééé, zingara gitana, femmena rumeeena
Uééé, ‘o ffuoc mio è p semp, ‘o sue fin’e diman…


E dopo la cena al tavolo di cento portate, il cantante ha detto: «gli invitati sono pregati di tornare all’abbuffet, dove verrà tagliata la torta e verranno serviti i dolci».
Siamo tornati all’abbuffet. Hanno sparato i fuochi d’artificio e gli sposi hanno tagliato la torta. Io, mi ricordo, ho snobbato la torta e ho puntato i miei dolci preferiti: le cassatine. Ero pieno fino in gola, ma quelle erano cassatine, non minne di sant’Agata catanesi, cassatine palermitane, con la pasta martorana verde. Che io non ci rinuncio neanche se sto per vomitare. Non ci rinuncio, io. E le ho mangiate, una dopo l’altra. E mi si chiudevano gli occhi, vedevo davanti a me il cameriere niuru niuru che m’incitava e mi faceva cenno di seguirlo. Il cameriere niuru niuro, che mi pareva uguale al chierichetto niuru niuru, al picciotto niuru niuru su una ruota. Mi guardava col sorriso e mi diceva a voce «pem, pem pem, tu devi digerire, ti facciamo digerire noi…» e mi ha portato sul retro con gli altri camerieri che stavano fumando erba. Mi ha detto «fuma questa, è roba nostra, fatta in casa», e mi ha mostrato una cimetta d’erba più verde della pasta martorana.
L’ha sbriciolata, al volo l’ha girata e me l’ha passata.
«Chi l’ariccia, l’appiccia» gli ho detto io, praticamente ruttando.
«Vai tranquillo!» mi ha ordinato lui, e poi a bassa voce: «continentali…», c’era pure Rosario che mi guardava e mi diceva: «fuma, fuma!»
Di Rosario mi sono fidato. Ho fumato. Non ho mai sentito nulla di più potente. Dopo tre tiri ho guardato il riflesso del mio volto sulle finestre della cucina: la faccia mi era diventata colore di zolfo, tremavo. Restai per un attimo sospeso, come tirato su per i capelli da una mano invisibile; mi cadde la canna di mano e sulla canna lentamente mi afflosciai.

***

Pem, pem pem. Stacco la guancia dalle mattonelle valenziane e davanti a me mi trovo il picciotto niuru niuru sul motorino, e l’omino delle panelle appoggiato alla lapa. Mi giro, l’autobus con scritto in fronte Siracusa-Palermo si piega dal lato della porta, e una volta scesa la signora Barrucieddu, si raddrizza. Dietro di lei compare Rosario. Guardo le loro facce che sembrano facce di ciechi, senza sguardo.



«Lo sai dove ti trovi?» mi dice l’omino delle panelle.
«No», gli rispondo, con occhi di sarda morta.
«Al chiarchiaro, ti trovi. L’hai letto Sciascia?»
«Lo devo leggere, ancora.»
«Eh. Leggilo – pausa – se avrai tempo…» mi dice il picciotto niuru, scatenando le risatine di tutti.

Ho paura. Per la prima volta da quando mi sono svegliato, sono abbastanza sveglio da avere paura. Il mio cuore ha un guizzo doloroso, come del coniglio in bocca al cane.
Mi vergogno di quello che mi ha suggerito il pensiero. In questo momento penso “polizia”. E immediatamente sento una sirena, che mi squarcia la mente come un’iniezione di speranza, «Miiiiiiiiiii», ma la sirena ha continuato: «miiiiiiiiinchia! Lo scrittore dei mie coglioni!»
«Salve, signora Barrucieddu»
«Ma quale minchia di signora Barrucieddu! Lo sai chi sono io?»
«Il prete?» dissi, scatenando altre risatine.
«Ma chi prete e prete! Questo non ci ha capito niente!»
Non avevo capito niente: l’omino della lapa, sempre co ste panelle; Rosario, pure al matrimonio e ora anche qui; il picciotto niuru niuru co sto motorino, pem pem, uguale al chierichetto e al cameriere…
«Ciro ti chiami – pausa – è vero?»
«Sì, sì, vabbè… è il mio nome di penna.»
«Hai sentito, Rrosario? Il suo nome di penna. Ma perché, che vorresti fare tu, dicci – pausa – dicci, dicci!»
«No, vabbè. Niente.»
«No, dicci, dicci! Se sei un uomo.»
«Lo scrittore!»
Silenzio. «Ntz», disse l’omino della lapa.
«Lo scrittore vuole fare, lo scrittore. Santa Madonna! C’è cascato come in una pentola il cappone. Lo scrittore! Terrore della spietata inquisizione, della nera semenza della scrittura. Bianca campagna, nera semenza: l’uomo che la fa, sempre la pensa. E tu ti credevi di alzarti un mattino e diventare scrittore? Come ti sei permesso, di scrivere un manoscritto, rivederlo, correggerlo, farti disegnare una copertina come la volevi, ma soprattutto – pausa – come minchia ti sei permesso di pubblicarlo? Ma lo sai chi siamo noi? Eh?»
«Non ne ho idea.»
«È chiaro che non ne hai idea. Guardami qua», disse la signora Barrucieddu: «io sono l’editoria! Hai capito? Mi conoscevi?»
«No, non la conoscevo. E ancora non è che…»
«Statti zitto! E lo sai chi è lui?» indicando il picciotto niuru niuru, «è la discibbuzziòne! E lui delle panelle? È le librerie che non ti s’inculeranno mai. Capisti?»
«Ma, ma... io volevo solo…»
«E Rrosario, questo professionista qua, lo sai chi è? È il maccheting; e pure i blog di letteratura; le rriviste; i concorsi letterari, che come le librerie – pausa – non ti s’inculeranno mai!»
«Ma… ma perché?»
«Pecché dovevi prima passare da noi. Hai capito? Ci dovevi chiedere il pemmesso. Capisti?»
E Rosario mi punta in faccia la lupara.
«Va bene, va bene ho capito, cancello tutto, ma per favore, non uccidetemi, cancello tutto…»
L’omino delle panelle apre bocca e dice: «no. Non ci piacciono i pentiti. Ormai hai scritto. Le parole non sono come i cani cui si può fischiare a richiamarli».
«Solo una cosa ti può salvare», disse Rosario.
Io non parlai, ma si capiva che attendevo la risposta come un naufrago la riva.
«Hai bisogno della nossra rrecenziòne.»
“La recensione? Sì, mi serve!” pensai.
«Tutti hanno bisogno di una buona rrecenziòne. Noi ti offriamo la nossra rrecenziòne. Altrimenti ti può succedere, così per caso, che qualcuno viene e ti lascia una cattiva rrecenziòne. Hai capito?»
«Ho capito. Capito. Ma che devo fare?»
«Tutto ci devi dare, hai capito? Tanto peccominciari alla signora Barrucieddu c’hadda dari i diritti. Quello che hai scritto – pausa – diventa di sua proprietà. Poi lei sa come spattire i guadagni col picciotto della moto pure, eh! Perché – pausa – senza benzina lo vuoi lasciare? E poi artri piccioli ce li diamo al panellaro, e pure a me, certo!»
«E io?»
«Miiiinchia, tu diventi uno scrittore. Il tuo sogno! Non sei contento?»
«Sì!»

***

E così sono diventato un vero scrittore. Il mio libro è stato pubblicizzato in televisione; sta sempre bell’esposto nelle librerie, nei reparti dei “consigli”; sui manifesti per strada; e la gente, a forza di vederlo, non solo si è accorta della sua esistenza, ma si è anche convinta che sia un capolavoro. Organizzano eventi dove si creano delle file lunghissime, lunghe come da Siracusa a Palermo, di gente che vuole solo un mio autografo sul libro.
Io continuo a non avere un soldo, ma sono un grande scrittore! Devo dire grazie ai miei amici, che mi hanno offerto la loro rrecensione e hanno contattato a loro volta i loro amici per ottenere più rrecensioni. Eccone alcune:




Anche da parte di scrittori di grande successo.






E infine hanno detto a tutti dove si può comprare e la gente l'ha comprato. Perché glielo hanno detto talmente tante di quelle volte che alla fine la gente lo ha comprato. Gli hanno lasciato questo link così tante volte che alla fine la gente si è decisa. Gli hanno spiegato ripetutamente che c'è sia l'ebook che il cartaceo, che poi gli è entrato in testa. Una cantilena. Hanno ripetuto i link, e ancora e ancora. Che petulanti! Eccoli qui:
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