mercoledì 3 giugno 2020

L'edicola


L’edicola era tutto. L’edicola era mio padre.
Era il luogo in cui mangiavo, facevo i compiti, giocavo, imparavo a campare. Niente chiacchiere per mio padre, solo esempi e sospiri. Come quella volta in cui certi turisti americani, per pagare cinquemila e trecento lire, ce ne misero in mano ottantamila: un pezzo da cinquanta e tre da dieci. Mio padre, che in inglese sapeva dire tichet for de bas, uan, ciu, tri, gli spiegò che dovevano stare attenti, se volevano tornare in America con le mutande.
L’edicola non chiudeva mai. La domenica, per stare con mio padre, andavo anch’io a fare l’apertura alle quattro di mattina. A quell’ora arrivavano i trasportatori: figure torbide come fantasmi di confine; esseri da tenere buoni, starci attenti. Rubavano agli edicolanti più ingenui per rivendere a quelli più furbi. Mio padre ci teneva e ci riusciva, a non essere né ingenuo né furbo.
Poi passava il furgone con i cornetti caldi per il bar, ma il bar apriva due ore dopo, perciò per due ore i cornetti li tenevamo noi. Ci sceglievamo i più belli e facevamo colazione, insieme a un vecchio poveraccio che passava spesso per andare in un campo a fa’ la cicoria. Mio padre guardava quel vecchio con commossa ammirazione dicendomi questo, questo signore qui è un grand’uomo, come se conosceva la sua storia e fosse così potente da non potermela nemmeno raccontare. Il vecchio si prendeva il complimento e pure i cornetti che mio padre gli offriva. E all’alba, ogni volta mio padre sembrava sorpreso, indicava il primo pezzetto libero di cielo e mi diceva guarda!, come fosse merito suo.
Io in quella scatola e in quel piazzale mi sentivo importante: potevo avere soldatini, figurine, biglie di vetro. Mio padre mi diceva scegli!, con un orgoglio accecante, che mi sa che ricopiava la faccia mia. Poi mi sparavo le corse coi carrelli del supermercato, giocavo a pallone coi marocchini che aspettavano la corriera, che in realtà erano del Senegal, o del Camerun, ma tanto all’epoca tutti i neri si chiamavano o vucumprà o marocchini. Con loro ho imparato il passaggio di piatto preciso, ché bisognava essere precisi, se no la palla finiva per strada e succedevano gli incidenti. Ci avrò giocato una ventina di volte, ma una ventina di volte quando sei ragazzino è una vita. Come quando si avvicinava capodanno e arrivava il napoletano a rifornirci di botti. Ci piacevano i botti. Più crescevo più grandi ne potevo sparare. Dai pop-pop alle miccette, ai miniciccioli, tric e trac, poi i magnum e i mefisto, fino ai razzi e le bombe e allora ecco che di botto m’ero fatto grandicello. Avevo imparato tanto, là dentro. L’amore per la letteratura, per esempio, non l’avevo conosciuto a scuola, ma all’edicola con i grandi classici che uscivano come inserto il lunedì. Un’idea politica, se mai ne ho avuta una, non me la sono fatta mica riflettendo chissà quanto. È stato sempre merito dell’edicola: quelli che compravano Il manifesto, L’unità, Liberazione, erano in genere persone buffe, simpatiche, dagli occhi buoni, e mio padre ci scambiava qualche battuta; mentre quelli che chiedevano il Giornale, Libero, Il Tempo, erano persone arrabbiate, rigide, e mi stavano sul cazzo. Mi studiavo i clienti e quelli che mi erano simpatici li ricopiavo, mi leggevo quello che leggevano loro.
Dicono che alla lunga il piombo dei giornali faccia diventare pazzi. Ma non credo sia per questo che mio padre si ammalò.
Stava bene quando me ne andai la prima volta. Io sparivo per mesi, andavo in giro, stavo lontano da casa, e come biasimarmi. Ma tornavo spesso, mi fermavo un periodo a ricarburare, perché era comodo. Incrociavo mio padre alle quattro di mattina: io rincasavo e lui andava ad aprire. Una di quelle mattine lo beccai a calarsi gli antidepressivi di mia madre. Gli feci il cazziatone prendendo spunto proprio da lei, da quella volta che mi aveva beccato la ketamina a me. Uguale. Ti fanno male, gli dissi. E lui mi rispose ma no! mi fanno stare bene, mi danno un po’ di carica per affrontare la giornata. Si vede che dopo che l’ho sgridato ha smesso di prenderli di colpo, e non si fa. Quella è stata la prima volta in cui l’ho ammazzato. Poi ci si è messa la crisi, internet, nessuno aveva più bisogno delle edicole, i soldi non bastavano più, e allora mio padre è diventato matto. Ma da un giorno all’altro. Lo so perché io c’ero. Lo sentii rientrare una sera, cantava nella tromba delle scale, con poco fiato, sconnesso, con quella voce stridula tipica dei pazzi, che pare fatta di polistirolo. Dovetti rinunciare subito alla vita del coglione e gli dissi papà, ora tu te ne stai a casa e a lavorare ci vado io. 
Funzionò più o meno bene, la prima settimana. Se ne stette sotto al letto, sotto al letto in cameretta mia, a scrivere cose assurde su pezzi di carta e di giornale: frasi sul sesso, ricordi, lamentele rivolte al sindaco, ai dottori, e appiccicava questi fogli dappertutto. Poi cominciò a venire all’edicola, perché non resisteva. Importunava i clienti con battute sessuali, loro non capivano, perché lo conoscevano normale. Uno pensa sarà una giornata storta, sarà ubriaco, invece no, era pazzo. Io me ne stavo sedici ore là dentro senza neanche prendere lo stipendio. Avevo licenziato un signore che ci aiutava, perché non c’erano soldi per pagarlo, e ci stavo dalle quattro di mattina alle otto di sera. Eppure nel cassetto ci rimanevano sempre le stesse due tre banconote che un altro po’ potevo dargli un nome. A volte ci sospendevano la distribuzione dei giornali e dovevo fare il giro degli altri edicolanti per farmi dare qualche copia a prezzo nostro. Non si è mai vista un’edicola senza giornali. Così, a differenza di mio padre, io non ci tenni più di tanto a non essere né ingenuo né furbo, parlai con i trasportatori e optai per l’essere furbo. Mi feci portare le copie rubate, le vendevo con un guadagno maggiore, e tutto quello che avanzava lo davo di resa. Lui se ne accorse e si lamentò, ci fu una bella litigata. Pure da matto era sveglio e pieno di princìpi. Presi a calci gli espositori, sputai sulle riviste, presi a pugni le vetrine, riversai tutta la mia violenza sull’edicola e la gente si fermò a guardare. Pure mio padre si fermò. Il suo sguardo tornò per un lungo momento a essere sano, lucido, come gli avessi risucchiato la pazzia, e mi disse non credevo te la prendessi così. Ma sembrava implorarmi non mi rubare anche questo. Voleva la sua via d’uscita.
Ormai era una guerra fra due innamorati, su chi doveva uccidere chi. Lui se ne uscì con una bella mossa: vendere la mia stanza all’avvocato vicino di casa. Sfondarono la parete e si presero la mia stanza; e con quei soldi ci pagammo quelli che a Roma si chiamano i buffi, i debiti. Io me ne dovetti andare a vivere in casa di amici. Sedici ore di lavoro e otto di divano; la sera mi facevo una canna, una partita alla playstation e crollavo. Questa storia andò avanti per mesi, durante i quali mio padre venne ricoverato al reparto psichiatrico del Santo Spirito. Voglio sorvolare su quel luogo. Dirò solo che mio padre entrò lì che era felice, esageratamente felice, troppo felice, euforico era il termine utilizzato dai dottori. Ne uscì alcuni mesi più tardi, sedato, vinto, svuotato. I suoi occhi, da che erano accesi di una luce inquietante, ora erano opachi come plexiglass. Se ne stava impalato a fissarmi, le poche volte che andavo a trovarlo, nella casa di venti metri quadri in cui erano rimasti lui e mia madre, circondati da mobili ammassati e calcinacci.
Io continuavo a prendermi cura dell’edicola perché l’edicola era tutto, era mio padre. E dopo sedici ore non avevo tempo né forza per passarli a trovare. Non potevo controllare che lui prendesse le medicine, questa volta sì, prescritte da un dottore. E non potevo fidarmi di mia madre. Lui mi chiamava, mi domandava come stessero andando gli incassi e io mentivo. Prendevo i soldi dal cassetto e gliene davo un po’. Non sapevo cosa fare, e continuavo solo a stare all’edicola perché l’edicola credevo fosse tutto, credevo fosse mio padre. Lui mi chiamava e mi diceva penso tutto il giorno a come ammazzarmi. Così io chiudevo e andavo lì. Lui davanti a me non le diceva quelle cose. Non parlava. E dopo un po’, quando mi sembrava di avergli detto parole giuste e potenti, me ne ritornavo a casa degli amici a riposare.
L’ultima volta che venne all’edicola mi disse di essere contento perché aveva ritrovato un figlio, e io ci rimasi un po’ male perché pensavo di esserci sempre stato. Mi abbracciò piegando la testa, poggiandola sopra la mia spalla, un gesto che non aveva mai fatto, e per la prima volta mi resi conto di essere di poco più alto di lui. Fu l’ultima volta che vidi la sua faccia. Io, in fin dei conti, mi dimenticavo costantemente che lui fosse matto. Lo sapevo, ma conoscevo troppo bene la persona buona, intelligente, sensibile che stava sotto quella coltre di follia. Credevo fosse forte, e che sarebbe tornato. Avevo, per inerzia, totale fiducia nella sua persona. E volevo scuoterlo, ed ero stanco, e lui mi chiamò un giorno in cui non mi avevano consegnato i giornali, e mi offese dicendomi ancora una volta di volersi ammazzare, e io gli risposi e ammazzati. Quella fu l’ultima volta che uccisi mio padre.
Il giorno dopo mi telefonò la portinaia, mi disse è successa una cosa brutta, tuo padre ha fatto una cosa brutta, lo hanno portato all’ospedale. Io in quel momento stavo fatto, ma il THC evaporò in un momento e fui il primo ad arrivare in ospedale. Dissi dove sta, lo voglio vedere, ma un medico mi agitò una mano pietosa davanti alla faccia, dicendomi di no, noi lo sconsigliamo. Io ebbi paura ma ci riprovai; non avevo neanche la certezza che fosse morto, ma non volevo chiederlo direttamente, e quello scuoteva la testa e diceva è meglio di no. Infatti pure i becchini gli avevano messo un velo sulla faccia. C’era questo corpo nella bara con la faccia coperta per decenza, che però si vedeva che la faccia era schiacciata, come un pallone bucato. Uno dei becchini mi disse che dovevo andare fiero di mio padre perché era un convinto, che sono pochissimi i convinti. Cioè era uno di quelli che si buttano dalla finestra e durante il volo non si pentono mai. Si vedeva perché non aveva segni sulle braccia. Aveva vinto perfino l’istinto di ripararsi.
Io la sera sono andato a dormire nel letto di mio padre. Mia madre se l’era presa mia zia. Ho incontrato la portinaia che si lamentava perché il sangue era difficile da pulire. Sono andato poi la mattina ad aprire l’edicola. Mi sono sorpreso dell’alba, che continuava imperterrita a spuntarsene senza più l’aiuto di mio padre. Incassai quello che potei, mi misi i soldi in tasca, poi chiusi l’edicola per sempre e me ne partii lontano. La lasciai lì, a decomporsi sul ciglio della strada.

domenica 26 aprile 2020

Tre microscopici racconti di fantasmi

Tre microscopici racconti di fantasmi. Tempo massimo di lettura: due magici minuti.
Illustrazione di Emanuele Simonelli



Il compleanno di papà

Oggi sarebbe stato il compleanno di mio padre. Tutti gli anni, da quando è morto, usiamo questo giorno per vederci in sogno. Mi domando spesso se sia solo fantasia, un meccanismo puntuale dell’inconscio, comunque la cosa mi diverte, e dai miei fratelli è vista come un dono. Alle volte noto un po’ d’invidia, dicono che sono toccatello. Ma come s’interessano poi, quando racconto che papà mi ha parlato di loro! Comunque oggi è andato tutto a monte. Avevo una riunione importantissima che mi ha messo molta ansia, non ho dormito tutta la notte e mi sono scordato del compleanno. Stavo uscendo di casa per andare alla riunione e mi ha chiamato mia sorella, appunto, per chiedermi del mio colloquio con papà. Ho chiamato subito in ufficio, ho detto a Jerry che non sarei andato alla riunione e mi sono messo a dormire per cercare papà. Niente, per le strade del sogno c’erano solo le donne nude e i cani che mangiano zucchero filato. Nei miei sogni è pieno di questi cani. Mi sono svegliato cinque ore dopo, sul tavolo c’era questo biglietto: “Figlio mio, che ci fai qui a dormire? Ti ho cercato tutta la notte al solito posto pieno di cani, ma non ti ho trovato. Così sono andato dove lavori, ma non eri neanche lì. A proposito, occhio a quel Jerry, è un falso”. 


Il portiere di via Avellino

Il portiere dello stabile di via Avellino, Roma, era morto da due settimane, ma non se n’era accorto. Continuava a cercare di pulire una macchia di grasso nell’androne ma la macchia non andava via, cercava di pulirla ma non veniva via. Le persone passavano ma nessuno lo salutava, come fossero risentite per la macchia. Per un istante gli venne il dubbio di essere un fantasma, ma fece buh al gatto e quello scappò. Continuò a pulire la macchia ma la macchia non andava via, non andava via.


La prospettiva

Avete presente la tenerezza che si prova nell’avere una persona, addormentata al fianco nostro, che si lamenta mentre sogna? Così vi vediamo a voi, noi morti. Qui di fianco che vi agitate per chissà cosa, noi non lo possiamo sapere, ma sorridiamo e a volte vi vorremmo perfino accarezzare.



mercoledì 22 aprile 2020

L'assurda storia di Mangesh il guro dei rider, e di Ricky il pellicciaio.


A Mangesh

“Per capire se un vino sa di tappo, prima devi assaggiare il tappo!”  Mangesh ripeteva spesso questa frase, fin dal giorno in cui ci siamo conosciuti, all’incrocio delle scorciatoie, fra una consegna e l’altra. La ripeteva spesso e lo faceva sgranando gli occhi pieni di furbizia. Credo volesse dire qualcosa sulla speranza, o sulla fatica, che saremmo arrivati a bere buon vino prima o poi, sì insomma a goderci la vita. Beh, non ho mai capito cosa volesse intendere esattamente con quella frase, ma faceva il suo effetto, quando la declamava prima di montare in bicicletta, salpando verso un’altra consegna. Ne aveva di frasi del genere, un’altra che ripeteva spesso era “Se vuoi fare una buona spremuta d’arancia, devi tagliare l’arancia all’equatore!” Questa mi risultava ancora più misteriosa.
Mangesh è stato il mio compagno di strada per ben due anni. È stato lui a iniziarmi alla gloriosa arte dei rider di città. Mi ha insegnato tutto. Non sto parlando di trucchetti stupidi per avere più consegne, o per prendere più mance… quella è roba da scuola elementare. Lui mi ha educato. Lo Zen e l’arte della manutenzione della bicicletta. Mi ha mostrato le virtù che deve avere un vero fattorino: rettitudine, pazienza, umiltà e buonumore. Mi ha insegnato a essere orgoglioso del mio mestiere. “Tu entri nelle case della gente. E lasci quelle case meglio di come l’hai trovate, non è così?” Dio, quanta saggezza, il vecchio Mangesh! “Rettitudine, pazienza, umiltà e… coscienza!” (Ogni tanto cambiava l’ultima virtù, ma più per aggiungere che per sostituire), “Soprattutto, ricorda: nessun cliente è migliore di un altro: non saranno età, sesso, colore della pelle, piano senza ascensore o mancia, a farti giudicare un cliente. Il tuo cuore dev’essere puro di fronte a lui”.
Io ero un giovane fattorino e Mangesh era un anziano indiano pieno di esperienza e di carisma, perciò diedi retta ai suoi preziosi precetti. Me li ripetevo a mente prima di dormire, e li assimilavo, diventando giorno dopo giorno un fattorino degno di questo nome. Più tempo passavo con Mangesh, più capivo che ognuno di quegli insegnamenti era carico di significato. Le parole di Mangesh non erano mai dette tanto per dire.
S’incontra un sacco di gente facendo il mio mestiere: ogni appartamento è un piccolo Stato, coi suoi dittatori e i suoi schiavi, coi suoi feriti e i suoi infermieri. S’incontra di tutto, e non giudicare, avere il cuore puro di fronte a chiunque, mi sarebbe stato impossibile se non avessi conosciuto Mangesh. È per questo che non battei ciglio, quando mi toccò consegnare a casa di Ricky il pellicciaio. Nessuno in città voleva consegnare a casa di Ricky il pellicciaio, ma lui era depresso, non cucinava e ordinava sempre da mangiare. Per assicurargli le consegne io gli diedi il mio contatto personale e cominciai a consegnare a casa di Ricky il pellicciaio privatamente, guadagnando in nero qualcosina in più. Lo dissi a Mangesh e lui si rannuvolò. Il pellicciaio era cosiddetto perché era stato accusato di avere scuoiato un intero vicinato di studenti fuorisede. Se l’era cavata in qualche modo in tribunale, per mancanza di prove, s’era fatto qualche annetto dentro, e ora stava ai domiciliari, godendo di un cortile pieno di case sfitte. Ma ciò che preoccupava Mangesh non era il presunto passato di Ricky il pellicciaio, ma il lavoro in nero. Secondo lui non stavo rispettando la deontologia del fattorino. La rettitudine vacillava. Così mi consigliò di continuare, perché qualcuno doveva pur occuparsi del povero pellicciaio, ma mi suggerì di prendere i guadagni illeciti e regalarli ai senzatetto che incontravo per strada. “Per sapere se un vino sa di tappo, prima devi assaggiare il tappo!”
Così continuai a consegnare da Ricky il pellicciaio. Nonostante il suo aspetto inquietante, la stazza di un elefante, le braccia pelose e possenti di un orango e la voce fina di uno psicopatico, grazie all’addestramento di Mangesh io riuscii a non giudicarlo mai. E ci scambiai perfino qualche parola, per rispettare una delle più importanti virtù del fattorino: il buonumore. Consegna dopo consegna, poco a poco Ricky il pellicciaio cominciò a sorridere vedendomi arrivare, e a salutarmi con la mano quando ripartivo. Alcuni senzatetto, i fortunati che ormai mi facevano le poste, riuscirono a togliersi qualche sfizietto.

***

A febbraio del 2020, scoppiò una pandemia che costrinse gran parte della popolazione a rimanere chiusa in casa. Io e Mangesh, in quanto rider, potevamo circolare. Fu uno dei periodi più felici della nostra amicizia. La città si schiudeva a noi, e la primavera ci baciava. Le strade erano libere, io e Mangesh facevamo le consegne insieme per farci compagnia e lui cantava le canzoni indiane da sotto la mascherina. Le nostre bocche erano coperte, ma dagli occhi si vedevano i nostri sorrisi.
Erano già passate due settimane di quarantena, quando qualche nota dolente, sotto forma di posti di blocco, cominciò a far stonare il canto di Mangesh. Lui all’inizio non volle riconoscere i segnali, ma all’incrocio delle scorciatoie c’era una pattuglia che non esiterei a definire, col senno di poi, “pattuglia di bastardi”. Mi ricordo la prima volta che ce li trovammo davanti. I due poliziotti sputarono in terra, proprio dove stava per passare Mangesh. Lui continuò a cantare come nulla fosse e non tirò mai fuori il discorso, ma i suoi occhi quel giorno risero un po’ meno.
Una settimana dopo stavamo facendo una consegna per me, lui mi accompagnava, era il crepuscolo e tirava un’arietta paradisiaca. Ci fermarono. Controllarono e videro che il turno di Mangesh era finito. E lo multarono. Il massimo che gli poterono dare glielo diedero. Lui non disse nulla, il giorno dopo si fermò davanti a uno sportello della posta e pagò la multa. E i suoi occhi tornarono a sorridere.
Nel frattempo il pellicciaio non si faceva più sentire, così un giorno proposi a Mangesh di andare a fargli visita, per assicurarci che stesse bene.
Lui con lo sguardo si mostrò orgoglioso di me e ci avviammo.
Presentai Mangesh a Ricky il pellicciaio, ma per via del virus non poterono stringersi la mano. Ci invitò perfino ad entrare, non aveva ben capito la gravità di quella pandemia, per cui, con un po’ d’imbarazzo, ci trovammo costretti a rifiutare. Ma restammo a parlare almeno dieci minuti per fargli capire che non ce l’avevamo con lui. Lui ci raccontò che non mi chiamava più perché aveva cominciato a cucinare tutti i giorni, aveva scorte di lievito e faceva la pizza un giorno sì e uno no. Era sereno perché ora, non solo lui, tutti quanti dovevano rimanere chiusi in casa. Poi si disse felice del fatto che, “per fortuna”, non aveva vicini molesti. Altrimenti sarebbe diventato matto. “Ho visto come suonano dai balconi, quegli scemi”.
Parve contento della nostra visita, e ci salutammo in modo molto cordiale.

Quell'anno la primavera aveva i bollori, con le sue giornate ci convinse subito a lasciare le giacche in casa e a girare in maglietta, ma il virus era sempre lì in agguato. Negli ospedali l’emergenza non accennava a scemare, la quarantena veniva prolungata di settimana in settimana e per strada c’eravamo solo noi rider, le ambulanze e, purtroppo, un numero sempre maggiore di poliziotti. All’incrocio delle scorciatoie le pattuglie erano diventate tre, messe a imbuto. Quando ci passammo davanti, quattro furono gli sputi in terra. Un poliziotto si mise a cantare scimmiottando le canzoni indiane di Mangesh. Lui non si scompose neanche quella volta. Era tutto preso dall’osservare la situazione dal punto di vista del fattorino: i negozianti vendevano solamente a domicilio e i rider erano ogni giorno di più. Mangesh sembrava andarne fiero, ma allo stesso tempo gli si stringeva il cuore a vedere così tanti ragazzi e ragazze svolgere quel lavoro senza passione.  Mi stava spiegando le sue teorie sul sentire la scia delle consegne, quando ci fermarono di nuovo. Stavolta andò peggio. I poliziotti mi dissero di andare via. Mi sventolarono i manganelli in faccia e io, per sentirmi al sicuro, dovetti raggiungere la fine dell’incrocio. Da lì vidi tutta la scena: non so perché né percome, sono sicuro che Mangesh non è il tipo di persona che provoca le forze dell’ordine... Ho visto come gli dava i documenti e poi, all'improvviso, il poliziotto gli ha mollato una pizza in faccia. Il suono è arrivato fino a me. Ha riecheggiato per le strade deserte che tanto piacevano a Mangesh. Lui ha perso per un attimo l’equilibrio, poi ha raccolto il documento che gli avevano buttato a terra fra gli sputi e, rimontato in bicicletta, mi ha raggiunto alla fine dell’incrocio. “Vedi, sono ragazzi, fanno il loro lavoro, ma senza rettitudine né buonumore”.
Io mi lasciai andare in un commento di disprezzo e Mangesh, serio, mi rispose che se fossimo stati attaccati da dei criminali, avremmo dovuto chiedere aiuto alla polizia. Per cui non aveva senso prendersela con loro. Io abbassai la testa e gli diedi ragione.
Col passare del tempo però, gli abusi divennero all’ordine del giorno. Sicuramente c’era un accanimento personale, forse razziale, nei confronti di Mangesh, ma presero di mira anche me. Ci informammo: non eravamo le uniche vittime di quelle tre pattuglie all’incrocio delle scorciatoie. Alcuni nuovi rider avevano deciso di abbandonare; certe consegne non erano arrivate a destinazione; i senzatetto ci raccontarono di essere stati picchiati senza motivo più di una volta. Era come se, con le strade vuote e la città tutta per loro, quei sei bulli in divisa si sentissero onnipotenti. D’altronde quel bivio era un punto di passaggio, un intreccio di strade per ogni direzione, ma non c’erano palazzi, né negozi: un crocevia privo di testimoni.
Mangesh faceva finta di nulla, ma non cantava più e, senza il bisogno di dirci niente, cercammo di evitare il più possibile l’incrocio delle scorciatoie. Anche se questo voleva dire allungare la strada di un bel po’. 
Per diversi giorni non incrociammo più gli sbirri. È così che funziona il tempo: dopo un po’ che passa la paura uno si dimentica i problemi, e tutto da lontano assume contorni più tenui. Mangesh aveva già perdonato i poliziotti che lo avevano picchiato, e soprattutto aveva a cuore la consegna che gli era stata affidata. Disse che non voleva presentarsi a casa del cliente con del cibo freddo, perché ora che la gente stava chiusa in casa il nostro compito era ancora più importante e delicato, perciò era il caso di andare alla rotonda delle scorciatoie e imboccare quella che più ci conveniva.
Non fu possibile.
Mentre stavamo passando, una delle tre gazzelle fece un’improvvisa retromarcia, speronando la bici di Mangesh quanto bastò a farlo cadere. Si fece male, me ne accorsi dall’espressione del suo volto. Scese un poliziotto e, come nulla fosse, gli chiese l'autocertificazione. Lui gliela diede, quello portò il foglio in auto. Dopo cinque lunghi minuti tornò da noi e disse “Allora? L'autocertificazione dov'è?” Mangesh aveva già capito l’antifona, e non gli diede la soddisfazione di cadere nel tranello. Si prese la multa in silenzio. Gli altri mi guardavano e ridevano. Sembravano soddisfatti, perché ci lasciarono andare. “Andate a fare il vostro lavoro di merda…” disse il più giovane di loro.
Mangesh rimontò in sella per portare a termine quella consegna. Arrivò all’indirizzo e salì al piano. Riscese poco dopo con il pacchetto ancora in mano. Il cliente lo aveva rifiutato perché era arrivato in ritardo e parte del cibo era fuoriuscita per via della caduta. “Per oggi basta”, disse Mangesh. Continuammo a pedalare lentamente. Io ero forse più scosso di lui, aspettavo un suo commento, una frase colma di saggezza che potesse schiarirmi le idee. Invece Mangesh non diceva niente. Fece il giro dei senzatetto, parlò a bassa voce con ognuno di loro, ripartendo a ciascuno un po’ di quel cibo rifiutato.
Quanta ammirazione avevo per quell’uomo! Quant’era bella e piena di valore la sua vita! Mi si avvicinò con occhi pieni di speranza e mi disse “chiama Ricky il pellicciaio!”
Volle andare a prendere Ricky il pellicciaio e lo fece salire sulla canna. Un vecchio indiano che pedalava portando un elefante sulla canna della bici.
“Cosa vuoi fare, Mangesh?”, gli chiesi.
“Riprendermi il buonumore”, mi rispose lui col fiatone.
Capii le sue intenzioni quando arrivammo nei pressi dell’incrocio, e lui, come un militare, fece cenno ad alcuni senzatetto di accerchiare le tre pattuglie.
Avevamo più alleati di quanto credessi. I senzatetto uscivano dai cespugli a decine, alcuni stavano nascosti sui trabattelli di un cantiere, altri accovacciati dietro gli spartitraffico: l’invisibilità era la loro croce, ma anche la loro forza.
Cercai di far ragionare Mangesh, facendo tesoro di tutti i suoi insegnamenti. Ora toccava a me, metterlo sulla retta via.
“Se dei criminali ci attaccassero, noi chiederemmo aiuto alla polizia. Giusto? Lo hai detto tu, ricordi?”
“È corretto”, mi disse sospirando, “quindi, converrai con me che, se ad attaccarci è la polizia, noi dobbiamo chiedere aiuto ai criminali. E qui subentra il nostro amico Ricky”, disse lanciando un segnale al pellicciaio.
Lo spettacolo fu agghiacciante. Sembrava che ognuno di quei senzatetto avesse qualche conto in sospeso da sistemare. L’accerchiamento fu rapido ed efficace. Quel vecchio figlio di puttana di Mangesh era inviperito, tirava calci nella mischia con polpaccio da ciclista e recuperava a vista d’occhio il buonumore. L’aria umida della notte scendeva su di noi come le goccioline sui calici di birra fresca. Sudammo come a una partita di calcetto. Poi, a partita finita, ritornammo a distanziarci socialmente come da norma, scansandoci per fare largo al grande Ricky il pellicciaio. Non gli avevano dato l’ergastolo solo perché non erano mai riusciti a trovare i corpi dei fuorisede. Perciò era l’uomo giusto per noi. Mangesh gli disse “Tieni sempre a mente le tue virtù: mano ferma, freddezza, e pulizia. Comincia pure dalla calotta, ma ricorda: per fare una buona spremuta, devi tagliare l’arancia all’equatore”. Il buon vecchio Mangesh era completamente andato. Ma fu un piacere vedere all’opera il pellicciaio, fece un lavoretto di fino. Il materiale organico entrò tutto nelle nostre bag per la consegna. Tutti e sei li aveva fatti entrare in due bag. Sashimi di poliziotto.

Quello fu il giorno più bello della nostra carriera. Due anni mi ci erano voluti, insieme a Mangesh, ma alla fine ero pronto, avevo visto tutto quello che c'era da vedere riguardo alla gloriosa arte dei rider di città.  Lui, che come ogni maestro aveva terminato la sua ultima lezione con un colpo da maestro, poteva finalmente andare in pensione con il cuore in pace. Io perpetuerò i suoi precetti, e un giorno forgerò nuovi rider.
Ma oggi non dimentico il vecchio Mangesh. Ogni tanto sento il bisogno di ascoltare i suoi consigli e ci diamo appuntamento. Ci si vede spesso a casa del pellicciao, che è una personcina davvero adorabile. Un giorno, dietro consiglio di Mangesh, parlai col pellicciaio per chiedergli una cosa: “Perché non facciamo occupare ai senzatetto tutti questi appartamenti sfitti qui da te?”
“Non se ne parla”, disse Ricky il pellicciaio.

venerdì 3 gennaio 2020

LA VOCE DEL PADRONE - pizzeria kakakazzi




Capitolo 1
Di quando spiego la vocina


La tua simpatia non dipenderà dalle battute che farai, ma da quanto riderai a quelle altrui, disse una vocina nella testa di Alberto. Tu purtroppo non fai battute né tantomeno ridi mai, quindi hai scarse possibilità di risultare simpatico.
Aveva una vocina nel cervello da quando era piccolo. Che poi il termine “vocina” è rimasto, ma col tempo era diventato inappropriato perché, crescendo con lui, la vocina si era trasformata in un vero e proprio vocione d’uomo. Quella che avrebbe un cane di grossa taglia se potesse parlare.

All’età di circa dieci anni gli venne una febbre che gli durò un mese intero. «Quella febbre ti ha fatto crescere tanto, figlio mio. Quando ti sei alzato da quel letto eri alto due metri, ti ho dovuto ricomprare tutti i vestiti. Ti ha fatto crescere tanto, quella febbre, ma ti ha fatto rimanere scemo», gli diceva sempre sua madre. La quale però non poteva sapere che l’influenza gli aveva portato la vocina. In realtà Alberto sono io. Chi ha parlato finora e continua a farlo è la vocina. Tutto è la vocina. Anche la vocina che dice “Alberto sono io”, è la vocina. Vivo costantemente con un narratore nella testa che rielabora ciò che è successo, mi spiega quello che succede, anticipa ciò che sta per succedere.

Su quello che sta per succedere però ho qualche dubbio. Non prevede il futuro. Una volta ho provato ad andare al casinò e la vocina stava tutta eccitata e sicura di sé: punta sul rosso! Punta sul nero! e non ci azzeccava mai. Lì ho capito che era una fregatura, ma tante volte ci aveva preso: non fidarti di quello, guarda che faccia, ti vuole fregare! E aveva ragione. Picchialo, picchialo ora, e ti sentirai meglio! Anche in quel caso ebbe ragione. Spaccagli quella testa di merda!

La vocina è come un vento su una barca, io sono la barca; il vento a volte è brezza, altre tormenta, ma il vento non smette mai, non finisce mai di raccontare. Per quello non faccio battute né rido: sono distratto dalle parole del vento.

Per colpa della vocina sono stato in galera. Tre anni, che poi sono diventati due, che poi sono diventati uno e un altro ai domiciliari. Ora sono uscito, vado in terapia e il dottore mi prescrive psicofarmaci che dico di prendere ma non è vero. Ho trovato lavoro in una pizzeria.
Il problema dei lavori è che devi fare i conti con persone che vogliono conversare, magari ogni tanto vorrebbero che tu le faccia ridere, si aspettano che tu rida alle loro battute, e cosa peggiore di tutte: non si rendono conto della vocina.
So di non essere un cattivo compagno: quando lavoro lo faccio sempre senza interruzioni, non fumo nemmeno, non disturbo, non chiedo, faccio quello che mi dicono senza sbuffare. Sono un po’ lento, ma se c’è da finire un lavoro rimango oltre l’orario di chiusura, non lascio mai nessuno nella merda. Non sono di compagnia, questo sì. Ma perché io lo sono già, in compagnia.


Capitolo 2
Di quando inizio a lavorare

Al primo giorno di lavoro i miei colleghi mi hanno messo in guardia. Prima ci ha pensato Adri, un albanese pieno di cicatrici in faccia, occhi sporgenti, con un’espressione sempre confusa, come se gli fosse appena scoppiato un petardo in tasca. A testa bassa, tagliando velocemente l’impasto, mi ha detto: «quando viene il capo, tu sta’ tranquillo e non ti spaventare. Lo vedi così, ma in fondo non è…»
«In fondo è uno stronzo», ha detto Fabio ridendo. Fabio è un ragazzino. Lavora da meno tempo di Adri e sta al banco a servire i clienti. Dice che dipinge, e io credo davvero che sia un artista.

Era un artista. Di quelli senza pubblico. Queste persone tirano avanti perché si aggrappano sempre a qualche accadimento che pare possa spalancargli le porte del successo: una vendita inaspettata, il bando di un concorso, i complimenti di uno sconosciuto o meglio ancora di una persona famosa. Infatti sono esseri leggeri: nelle tasche mai l’ombra di un quattrino, tanta vitalità dentro gli occhi. Vibrano tutto il giorno di speranza.

Dopo il pranzo è arrivata Adele, in ritardo di due minuti. Era tutta bianca e sudata come la mozzarella, e con il panico nella voce ha chiesto subito se nel retro ci fosse il Signor Sandro. Lì è stato quando ho memorizzato il nome del padrone. In qualche modo ho provato anche a immaginarmelo. Adri le ha detto di no e il viso di Adele si è rilassato all’istante e ha ripreso colore. Si è sciolta la ricca chioma nera ed è andata a cambiarsi.

I padroni fanno tutti schifo perché gli uomini non sono portati per fare i padroni. Sono portati per fare i cani, è questo il problema. Tant’è che si costruiscono guinzagli dorati e li chiamano dio, mamma, papà, moglie, marito... e sognano qualcuno che gli dia da mangiare e li coccoli per sempre. Ma poiché gli uomini devono fare gli uomini, i padroni vanno tutti ammazzati.


Capitolo 3
Di quando conosco il Signor Sandro


Oggi sono tre giorni di lavoro e ancora non ho conosciuto il Signor Sandro, colui che mi dovrà pagare.
Sono sempre a disagio con i colleghi, ma nel locale si respira un clima sereno. Tranne quando squilla il telefono. C’è un attimo di panico, si zittiscono tutti, Adri risponde, parla a bassa voce. Se è tutto ok fa un cenno e tutti si tranquillizzano, almeno fino al prossimo squillo.
Fabio ride sempre, sembra il più tranquillo, è venuto a lavorare anche oggi con una maglietta sporca di colore. Credo lo faccia apposta per far vedere che dipinge. Adele si è vestita più carina e ride spesso alle sue battute.

La simpatia degli altri non dipende tanto dalle loro battute, quanto da…

Dopo una settimana di lavoro è arrivato finalmente il Signor Sandro. Ho capito che era lui appena ha messo piede nel locale: ho notato subito un cambiamento psichico simultaneo alle mie spalle, di tutto il personale al lavoro, ma ho avuto la conferma solo quando, dopo essere avanzato verso il bancone, non si è fermato ed è passato dietro. Ha aperto la cassa, ha preso i soldi ed è entrato in magazzino.

Intorno non avevo più gli stessi volti, ma maschere, manichini intenti a lavorare, con gli occhi sprofondati in una specie di tristezza. Fabio aveva un’espressione che lasciava intravedere aspetti del suo essere che non avrei mai sospettato. Un grande bagaglio di paure.

Il Signor Sandro è uscito fuori dal magazzino, è rimasto lì sulla porta, mi ha fissato e, dopo qualche secondo, mi ha fatto cenno di entrare. Adele mi ha guardato di sottecchi e mi è parso di leggere sul suo volto un misto di compassione e sollievo.
Sono entrato in magazzino.

Il Signor Sandro è un vecchio sui sessantacinque anni, ben vestito, non alto, senza barba. Naso schiacciato, come se glielo avessero rotto in passato con un pugno. Occhi celesti, rapidi e liquidi, sovrastati da sopracciglia crespe e selvagge, bianche come i capelli che porta di lato con un dignitoso riporto.

Ha poggiato il mio contratto su uno scatolone e mi ha sorriso. Ho visto che ha dei denti molto piccoli. Poi mi ha detto che mi vuole in cucina, che mi ha osservato dalla telecamera (l’ha indicata) e mi vuole più dinamico. Ha detto che mette tutto in regola secondo la legge, busta paga con tutte le ore segnate, che paga bene e puntuale entro il 5 del mese, che in questo ambiente non è una cosa scontata. Mi ha chiesto almeno tre volte, in modo molto gentile e preoccupato, se mi stessi trovando a mio agio. Se avessi intenzione di continuare. Perché lui mi avrebbe formato volentieri.
Io ho annuito tutto il tempo, tenendogli sempre gli occhi in faccia e cercando di calmare il mio cuore, perché dalle sue prime parole mi stava schizzando via dal petto. Nella testa ascoltavo la vocina, e di fuori dovevo seguire quella del Signor Sandro, che era la stessa identica voce: avevo davanti a me la vocina. «Va bene, ragazzo? Ti piace questo lavoro?»
Mi piacciono i tuoi soldi. Lavoro perché mi paghi. Come può piacermi un lavoro del genere? Pensi che non abbia di meglio da fare, vecchio scemo?
«Sì, certo. È un buon lavoro.»

C’era solo una leggerissima differenza fra la voce che avevo udito sempre e quella del Signor Sandro: la stessa che passa fra la voce che crediamo di avere e quella che scopriamo riascoltando una registrazione. Da dentro ha un valore che fuori non ha, ma senza alcun dubbio è lei.

Capitolo 4
Di quando il Signor Sandro si rivela. E dell'inguacchio

Il giorno dopo Adele è venuta truccata. Fabio continuava a lanciarle battute e lei rideva. Ma la vera intesa lavorativa con Adele era Adri ad averla. Lavoravano fianco a fianco da oltre due anni e, da quando ero arrivato io, avevo sentito i clienti scambiarli per una coppia almeno in un paio di occasioni. Io stesso a vederli la prima volta l’avevo creduto. Mi è rimasta impressa la faccia di Adele quando è arrivata a lavoro accompagnata dai genitori, e Adri ha lasciato il forno per andare a stringergli la mano.

Sono ben due giorni che li osservo incuriosito, ma ciò che m'interssa davvero è il ritorno del Signor Sandro. Voglio risentire quella voce.
Si è presentato alle tre del pomeriggio, si è fermato a parlare con Adri, il quale abbassava la testa e annuiva ripetutamente, come se volesse scrollarsi di dosso certe parole che io da qui non potevo udire. Poi il vecchio si è messo a dare indicazioni ad Adele e lei ha cominciato a correre su e giù tutta confusa.
Fabio si è venuto a rifugiare in cucina, ma quando ha visto che il Signor Sandro stava venendo anche qui, ha preso ed è uscito di corsa.

«Come andiamo, ragazzo? Tutto bene?» mi ha chiesto con tono paterno. Non mi ero sbagliato, non ero stato tratto in inganno dall’emozione: lui era la mia vocina.
Ho risposto di sì e credo di averlo guardato con un sorriso inebetito. Lui si è fermato, fissandomi con una specie di faccia schifata.
«Mi raccomando, ragazzo, vedi di andare un po’ più veloce, d’accordo? Vuoi un caffè? Come lo prendi, normale, con lo zucchero?» E poco dopo è tornato con il caffè. «Ma ti piace questo lavoro?» mi ha chiesto ancora una volta.



***

Nel locale abbiamo un carrello meccanico che ci consente di passarci le teglie, gli ingredienti e tutto il resto velocemente dalla cucina al forno. Adri sta al forno, mi chiede le teglie e io corro a prenderle e gliele metto nel carrello. Lui mi rimette nel carrello le teglie sporche e io le pulisco e continuo a condire, a darmi da fare in cucina. Se c’è Fabio che lo aiuta me ne sto dentro, altrimenti ogni tanto esco fuori ad aiutarlo anch’io.
Un pomeriggio Adri mi ha chiesto di prendere l'impasto che loro chiamano l’inguacchio e non so a che serve. Comunque lo preparo sempre io: 3 litri di acqua e una bustina intera di questa cosa che non so cosa sia. Sbatti con la frusta ed è pronto l'inguacchio. Mentre vado per metterlo nel carrello entra il Signor Sandro.
Mi guarda come se lo stessi profondamente deludendo.
«Ci hai messo l’intera bustina, ragazzo?»
«Sì, certo.»
«Sicuro?»
È strano, io sono abituato da una vita a sentire quella voce e a darle retta. Parla sempre con me e raramente dubito di ciò che dice. Ma ora usciva dalla bocca di quel vecchio, e stava mettendo in dubbio una cosa della quale ero sicurissimo.
«Sicurissimo», risposi, «l’ho appena fatto. C’è la bustina vuota nel secchio, guardi».
Lui mi strappa la caraffa dalle mani e la va a pesare sulla bilancia. Dice che non si fida. E io, che ho molto lavoro da fare, gli vado dietro e gli ripeto di fidarsi.
Alza la voce, mi ordina di leggere le tacche sulla caraffa perché non ci vede bene. «Dimmi che c’è scritto qua!» urla.
Non so cosa voglia dimostrare. Sta rifacendo l’inguacchio in un’altra caraffa e lo pesa. Si segna il peso su un pezzo di carta, rovescia il contenuto in una terza caraffa e pesa anche quella. Sta sporcando tutto. Non riesco più a stargli dietro. Usa una caraffa ancora più grande, quindi di peso maggiore, ci lascia persino la frusta dentro, e la mette così sulla bilancia. «Come mai pesa di più questa? Eh? Che cazzo dici di averci messo tutto!»
A questo punto penso che sia pazzo. Chi non lo è. E mi lancio in un tentativo disperato. «Ce l’ho messa tutta. Si fidi!» grido in tono supplichevole.
«Chissà cosa cazzo hai combinato», mi dice lui con astio. E getta il mio impasto nel lavandino che avevo appena pulito.
«Tu l’inguacchio non lo fai più! Hai capito, ragazzo? Non lo devi più fare perché non sei in grado.»

Omo demmerda, testa de cazzo. Omodemmerda. Ti ammazzo, pezzo dimmerda. Omo demmerda. Riprovaci e ti taglio la gola.
Sono andato avanti con omo demmerda per diversi minuti dopo che se n’è andato. Ho continuato a lavorare bestemmiando e lanciando tutto all’aria. Poi mi sono voltato verso la telecamera e ho fatto il gesto di tagliargli la gola. Io l’ammazzo se ci riprova. Omo demmerda. Non ti azzardare più ché ti taglio la gola.
La prossima volta gli metto paura. Lo minaccio fisicamente a sto bastardo. Prendo il coltello grande e gli faccio chiedere scusa tante volte.

Il giorno dopo la faccenda dell'inguacchio ho aperto l’home banking e c’era il mio primo stipendio. 15 giorni. Moltiplicando l'importo per due veniva fuori uno stipendio abbastanza buono. 
Quello stesso pomeriggio Adri è venuto in cucina e si è fatto l’inguacchio da solo.
Gliel’ha detto quell’omo demmerda, sicuro. Non me lo lasciano più fare. È assurdo.

Poco dopo entrano Fabio e Adele a mangiare.
Il Signor Sandro: «Come andiamo, ragazzo?»
Mi volto di scatto e invece era Fabio, che lo stava imitando benissimo.
«Veloce, ragazzo, veloce!» e Adele rideva.
Non è che amassi particolarmente la vocina, ma m’infastidiva ancora di più sentirla uscire dalle bocche di tutti.
«L’hai fatto l’inguacchio, ragazzo? Ci hai messo tutta la bustina?»
Adele mi guardava e rideva.

Le persone diventano più belle quando ridono. Fa quasi bene guardarle.

«Ma tu non ridi mai?» mi chiede Adele tornando seria.

Io non so rispondere, davvero.
Continua a lavorare. A te non serve essere felice.
Hai bisogno della tua tristezza. Hai tanti validi motivi per essere incazzato, a cominciare da questo lavoro. Vogliono che ti prenda i tuoi psicofarmaci, vero? Così sparirà la tristezza e anche la vocina. Sicuro! Quale schiavo migliore, di uno schiavo felice?
Non li prescrivono solo a te, non è vero? Ce li tirano appresso, oramai. Ci vogliono felici di vivere in salita e per questo ci dopano. È proprio così.


Capitolo 5
Di quando supero una sfida. Fine

Il Signor Sandro è arrivato dopo altri due giorni di assenza, improvvisamente, mentre Fabio stava servendo al bancone e c’era molta gente.
«Veloce, ragazzo, veloce!» comincia a urlargli davanti a tutti.
«Qualcuno da servire?» chiede Fabio. Ma i clienti erano già tutti serviti e attendevano le pizze che erano in forno. Perciò nessuno rispose.
«Tira fuori la voce, ragazzo, dai!» urlava il vecchio.
«C’è qualcuno da servire?» gridò ancora più forte Fabio. E ancora una volta nessuno rispose.
«Più forte, strilla! Ce l’hai la voce, ragazzo?» insisteva il padrone. E la gente si mise a ridere imbarazzata.
Arrivò una donna a pagare, Fabio le fece il conto. Due pizze e un’acqua: 17.
Il vecchio da dietro si sbracciava, perché secondo lui il conto era sbagliato e veniva 18. Andò a dirglielo all’orecchio e Fabio dovette chiedere scusa alla donna, dirle che si era sbagliato e che il conto veniva 18.
Si venne a sfogare più tardi in cucina, raccontandomi che aveva rifatto il conto, gli aveva fatto vedere al Signor Sandro che era 17, e quello gli aveva risposto che infatti lui aveva detto 17. Dopodiché, quel vecchio stronzo era andato in bagno e, una volta uscito, gli aveva ordinato di andare a pulire. Fabio era entrato e lo aveva trovato in condizioni disastrose. Con la merda perfino sui muri. E secondo lui non c’era da stupirsi se a sporcare a quel modo fosse stato proprio il Signor Sandro.

Ogni giorno ce n’era una. Una mattina sono entrato in magazzino e ho trovato Adele che piangeva. Stavo pensando di abbracciarla, ma lei mi ha anticipato e, singhiozzando, mi ha chiesto di andare a chiamare Adri.


***

Quello stesso pomeriggio il vecchio è piombato in cucina da me, mentre io, che giorno dopo giorno stavo imparando a gestirmi meglio il lavoro, credevo di avere tutto sotto controllo. Si è messo a sbraitare che dovevo andare più veloce. Io mi sono affacciato e ho visto che fuori non c’erano molti clienti, una cosa normale. Ma lui era una belva, neanche mi guardava in faccia, fissava il pavimento e camminava su e giù. «Forza! Veloce! Via tutto! Cazzo! Veloce! Non siete buoni a fare un cazzo. Dormite. In cucina dormite. Fuori dormite. Veloce veloce veloce! Andiamo, ragazzo, cazzo!», ripeteva senza riprendere fiato. Io mi muovevo in fretta per fare un po’ di scena, consapevole del fatto che non sarebbe cambiato niente sui tempi, ma almeno lui si sarebbe calmato. Invece si è messo a contare le palline d’impasto nel frigo. Mi ha detto che avrei dovuto stenderne 200 subito, che lui sarebbe tornato dopo un’ora a controllare.
«Se non ce la fai, non ti richiamo più», ha aggiunto prima di uscire.

Omo demmerda, testa de cazzo. Ti ammazzo, li mortacci tua, omo demmerda. Io te meno. Ti taglio la gola. Con questa colonna sonora nella testa ho ribaltato la cucina tentando l’impresa e macinando bestemmie.  Ero come un frullatore acceso, senza tappo e pieno di farina. Se vuoi mi licenzi, ma prima mi tolgo la soddisfazione di staccarti la capoccia. Così mi licenzi, ma senza capoccia. Lo prendo a calci. Lo caccio dal suo locale. Lo prendo e lo porto in sala davanti ai clienti. Lo corco lì a sto bastardo.

Adri entra in cucina e mi dice: «ma veramente vuoi stendere 200 pizze in un’ora? Ti vuoi far venire un infarto?»
Adri forse mi sta più simpatico di tutti. È strano perché, dopo di me, è quello che fa meno battute e sorride pochissimo.

Le teorie della vocina non sono che cazzate. Non ascoltare la vocina, suggerisce la vocina. In qualche modo riesce ad avere sempre ragione.

Difatti eccola che rientra con le sembianze del Signor Sandro. Il tempo è scaduto.
Sono riuscito incredibilmente a stendere 157 teglie. Non ho rimpianti.
Neanche le conta, dà un’occhiata di sfuggita e mi dice: «ne hai fatte un’ottantina almeno?»
Non rispondo. Lui sembra calmo, poi torna indietro e comincia a lamentarsi. Dice che ne ho fatte troppe, mi guarda avvelenato. «A chi le vendiamo adesso queste?»
In quel momento entra Adele. Quando lo vede sbianca. Lui le dice di andare al forno, prendere tutte le teglie vuote e metterle nel carrello. E a me comincia a dire che devo pulire tutto. Veloce, veloce. Forza. E rimane lì a osservarmi. Mentre poso un contenitore in frigo mi dice di dare una scopata per terra veloce; prendo la scopa e vuole che pulisca il tavolo con una pezza veloce; «asciuga i piatti, veloce!»
Io, non so perché né come, ma provo a fare ogni cosa che mi dice. Non ascolto neanche più la mia vocina, che tanto è lui. Dopo due minuti si sente un rumore meccanico: è arrivato il carrello pieno di teglie. Lo apre subito, «prendi le teglie, veloce, veloce, le teglie, puliscile, lascia stare quello, forza, prendi qua le teglie!»
Io mollo tutto e vado di corsa a prendere la prima teglia con la mano. Mi ustiono e mi cade a terra, con un rumore di metallo che sembra il suono della mia umiliazione. Lui sta ridendo. Fa due passi indietro e mi fissa con un ghigno sghembo e compiaciuto. Ecco di nuovo i suoi denti minuti.

Te l’ha fatto apposta. Sapeva che erano appena uscite dal forno. Te l’ha fatto apposta e ora ride. Ti paga e fa di te quello che vuole.

Mi abbasso, raccolgo la teglia a mani nude. La tengo in mano dal lato corto. Sono teglie in lamiera con i bordi fini che tagliano, non si puliscono mai con acqua, ma solo con una spatola d’acciaio. Sono grasse e arrugginite. Sento le mani bruciare e ne ricavo una sorta di energia che carica me, mentre spegne il sorriso del Signor Sandro. Gliela do da destra a sinistra, di taglio in faccia. Gli prendo la guancia, gliela apro, forse perde pure un occhio, non lo so perché ha la faccia coperta di sangue. È sul pavimento. Mi siedo su di lui e comincio a prenderlo a cazzotti in faccia. Voglio fargli saltare qualche dente e provo ad andarci col gomito, da destra a sinistra, da sopra con tutto il peso del corpo. Sento qualcosa che si smaciulla, ma non capisco più niente della sua bocca: è venuta giù tutta. Voglio provare a dargli dei cazzotti sul naso per vedere com’è rotto. E sì, praticamente è come colpire un raviolo al vapore. Ci perdo subito il gusto, anzi, mi fa senso dopo appena tre destri.
Respiro. Tutto sommato ancora sta bene, si muove, vuole tirarsi su ed emette versi disperati. Mi levo da sopra di lui, ma non ce la fa comunque ad alzarsi.

Ora prendo il coltello grande e gli faccio chiedere scusa tante volte.

Prendo il coltello grande. Ho tempo di sciacquarlo col sapone perché era sporco di formaggio. Fa ridere minacciare uno con il coltello sporco di formaggio. Lo asciugo con calma, tanto più nessuno mi corre dietro.
«Chiedi scusa!» gli dico.
Quello ha la bocca ridotta un macello, poveraccio. Non riesce a dire quasi niente.
«Chiedi scusa!»
Riesce a partorire una parola strana, che sembra un pezzo di carne farcita. Un suono gutturale simile alla vocale A.
È la vocina che non sa più parlare. È solo lamento, puro e primordiale.
«Non hai capito. Mi devi chiedere scusa tante volte!»
Scusa, sento. Scusa, ripete. Scusa, scusa, scusa, e non so più se sia la vocina dentro me, quella del bastardo, o quella della lama che entra ed esce dalle carni. Scusa, Scusa, Scusa, ripete il coltello lacerando i tessuti, uccidendo per sempre la voce del padrone.

Rimasi ad ascoltare il silenzio nella mia mente e fui felice. Mi cadde l’arma dalle mani, e il suono che ne scaturì mi fece sentire nel giusto. Era meraviglioso.
Mi lavai le mani e la faccia al lavandino. Ascoltai anche l’acqua scorrere e ne trassi un gran piacere. Capii che non avevo mai ascoltato nulla come si deve, ed era il suono del presente a farmi godere. Come un bambino, andai ad azionare il carrello solo per udirne la melodia.
Uscii fuori e c’erano Adri, Adele e Fabio. Mi chiesero subito dove fosse il signor Sandro. Io risposi loro ridendo - e visto che ridevo guardai Adele - che il Signor Sandro era dentro, e che probabilmente lo avevo ammazzato. Li feci ridere tutti e tre. Non erano abituati a vedermi felice. Credevano fosse una battuta.

Fine