“10 microracconti che finiscono tutti con una
bestemmia”. Microracconti perché non superano le 300 parole, perché vai
sempre di fretta, perché hai altro da fare, lo so. Però non leggere di fretta.
Proprio perché sono corti, leggili piano, fai un respiro, concediti un momento,
chiudi le altre app, siediti, comodamente, lascia che tutto vada
tranquillamente a fare in culo: sono solo 10 microscopici raccontini, nulla di
che e niente di male. Piano-piano. Stai andando piano? Ecco, vai piano.
#1 Un barbone
Forse è il binomio “gigante-buono” ad ingannare chi di
me si fida. Mi vedono così grosso e vogliono scherzare con me, forse per
l’adrenalina, o forse perché pensano che sarebbe troppo disonesto, da parte mia,
usare la mia stazza.
Credono che i chili in più io ce li abbia sulla
pazienza. Puntualmente li mando all’ospedale.
Ragazzi, siete tutti così: voi vi approfittate tutti
i giorni dei vostri privilegi, e io, che sono un cazzo di barbone, non dovrei
rompervi il culo quand’è il mio turno?
Mi vedono per terra, tranquillo che leggo… Leggo
quello che capita, classici più che altro. C’è Riccardino della bancarella sotto
ai portici che mi presta qualche titolo. Ci sto attento a non rovinarglieli,
poi glieli riporto. E dev’essere che mi vedono lì che leggo tranquillo, il
grasso nasconde ogni spigolo della mia faccia e mi fa sembrare un tenerone, un
bambolotto. Forse è questo. Sarà il mio aspetto a invogliare le persone a
parlarmi. Sarà che sto seduto per terra con una pancia enorme e sembro lento ad
alzarmi.
L’altro giorno è stato il turno di un ragazzetto di
periferia alle prime gitarelle in centro. Stava con gli amichetti, mi ha visto,
gli sono sembrato interessante, probabilmente; si è avvicinato con quel cazzo
di telefonino e mi voleva fare il video, non so perché, non so che cazzo avesse da ridere. Nel dubbio: pizza in faccia, lungo per terra. Non mi dovete cacare
il cazzo, porcoddio.
#2 La baracca
Non c’è niente che unisca un popolo meglio della
povertà. E se il popolo sono solamente due persone intrappolate improvvisamente
per qualche motivo in una baracca, l’unione può diventare davvero solida.
Franco sono settantadue anni che odia Vittorio per una
faccenda di terreni confinanti e recinzioni, ma se Vittorio trovasse il modo
di rimediare un abbacchio, Franco sarebbe pronto ad abbracciarlo e baciarlo,
anzi, non potrebbe farne a meno; e mai abbraccio sarebbe più sincero. E
Vittorio, al cui orecchio erano sempre giunte, per vie traverse, le invettive
che Franco gli aveva rivolto per anni, riporrebbe ogni rancore e
sarebbe pronto perfino a brindare con lui, se solo si trovasse qualcosa da bere.
Fuori piove a dirotto e grandina da due giorni. Tocchi
grossi come sampietrini torturano la baracca. La campagna attorno, sottomessa
e muta, riceve le ammonizioni del cielo con improvvise frustate. Dopo il lampo
non passa un secondo che il tuono rimbomba come il passo di un gigante.
«Secondo la radio ne avremo per tre giorni», dice
Vittorio, rivolgendosi a Franco per la prima volta dopo anni, sorridendo
involontariamente.
Franco lo guarda con occhi gelidi, che però si
sciolgono all'istante. Un angolo della bocca gli va all’insù, come a sancire la
pace, che infatti sugella esclamando: «ma porca la madonna!»
#3 Trinità
Qui al numero 3 c’era il racconto più bello di tutta
la storia dei racconti. Perché il racconto più bello, irripetibile,
irrecuperabile, è sempre quello che viene scritto di getto. Viene scritto di
getto e poi cancellato per sbaglio senza avere salvato, porcoddio. E qui la
bestemmia può essere doppia perché, se Dio è il salvatore, perché non l’ha
salvato, porcoddio?
#4 Inquartato
Stava chiaramente utilizzando il cibo come sedativo.
Quando lo stomaco lavora, la mente ha meno energie, innanzitutto. Un’analisi
molto semplice, per noi che osserviamo con distacco. Lui di questi semplici
meccanismi ne era completamente all’oscuro. Lui apre il frigo e mangia, apre
la credenza e mangia, fruga nelle tasche e mangia. Seduto sul divano è dove
mangia più spesso. Ora un intruglio intinto col pane. Strappa una pagnotta. Sul
polso, fra la mano e il braccio, ha una piega che separa il grasso della mano
da quello del braccio. La pelle è diventata liscia come quella di un bimbo. Prima
era un figurino. Poi ha perso il lavoro. Dopodiché si è lasciato con la
compagna. E gli è morta la madre. Non avevano un bel rapporto e perciò questa
notizia non avrebbe dovuto sconvolgerlo più di tanto. Ma si andava a sommare.
Poi è venuto a sapere che un suo cugino aveva ottenuto un ottimo lavoro che gli
fruttava cinquemila al mese. Non lo vedeva da anni, ma da piccoli giocavano
sempre insieme e, ogni volta che le due famiglie s’incontravano, le mamme li
mettevano vicini per misurarne le altezze. Neanche questa notizia avrebbe
dovuto condizionarlo negativamente: madri vive e posti di lavoro non equamente
distribuiti non sono un problema così grave. Poi aveva fatto diversi colloqui,
con esito negativo. Oggettivamente non aveva più l’aspetto di un elemento buono
da spremere sul lavoro. Sembrava ormai privo di succo.
Arrivò l’inverno, la luce fredda del mattino si posò sul divano, appassito come una prugna sotto al suo peso, nel punto in cui
sedeva sempre. Prima di passare dal divano al letto, si guardò allo specchio:
aveva meno capelli, più barba, più chili, molti più chili. Con un respiro
rumoroso riconobbe sé stesso dentro ai suoi occhi e disse: Porca Madonna.
#5 Una figlia e un
padre
«Papà, dove li metto questi?» dice la bambina.
«Ma ammucchiali e buttali là, che ti frega!» risponde il papà.
«Ma mamma dice…»
«Buttali là! Non fa niente. Questi sono i giorni
che passi con me. Non li sprechiamo: oggi non hai doveri! Dai che ci facciamo
una carbonara…»
«Ma sei disordinato.»
«Lo so, lo so, ha ragione la mamma, tu devi ascoltarla sempre. Le cose che dice sono tutte giuste e ti aiuteranno a vivere
meglio, ok? Però lei ti ha tutto il tempo, io solo due giorni a settimana, quindi godiamoceli… I panni poi me li piego, va bene?»
«Ma dai, papà! Te li devi sistemare così poi trovi
tutto bello ordinato!»
«Allora, che ti ha detto papà? Che i panni poi me li
piego. Dai, vieni qua che adesso inizia pure la partita…»
La bambina indietreggia leggermente.
«Ma io non voglio vedere la partita…» (broncio).
«Ma la partita è bella, appapà. Vabbè, vabbè-vabbè, decidi tu, basta che stiamo insieme… magari facciamo
zapping, ogni tanto, che ne dici?»
«No...» (sorriso perfido, ma irresistibile. Da
chi l’avrà ereditato? Mistero).
«Sì, amore, vabbè, decidi cosa vuoi vedere. Anzi, rimetti
un attimo sulla partita, poi cambiamo. Mi aiuti con la pasta?»
«No!» (si è seduta a tavola, schiena dritta,
telecomando in pugno, quant’è bella).
«Ma amore, cos'hai? Dai, metti un attimo sulla
partita, guarda, rompi quest’uovo. Papà t’insegna…»
«None.»
«Guarda come si fa: l’hai mai fatto?»
«Lo hai detto tu.»
«Che ho detto?» (espressione viso + mano
italiana)
«Lo hai detto tu che oggi non ho doveri.»
«Epperò sei peggio de tu madre, porcod...due.»
#6 Influencer
A vent’anni ero influencer e a 22 non più. Ho iniziato
con le foto in cui surfavo. Le spiagge dei surfisti sono bellissime. Postavo
foto di viaggi, abiti e cibi esclusivi. Ero bella e sulla cresta dell’onda,
davvero.
Un giorno, a Londra, mi hanno tirato l’acido in
faccia. Erano miei follower, fa ridere questa cosa? È bastato un bicchiere e mi
hanno sfigurata per sempre.
All’inizio ho combattuto, ho continuato a postare con
la faccia deturpata. Sono diventata più famosa. Un simbolo. Sembravo davvero
convinta, ho reagito alla grande, ho tenuto conferenze motivazionali, mi ero
messa in testa che la bellezza fosse tutt’altro. Ho cambiato totalmente
messaggio. Ma era una menzogna, che raccontavo prima di tutto a me stessa. Nel
frattempo mi sottoponevo a operazioni estetiche costose e inutili. La
depressione è piombata su di me come un’onda grande che mi ha tenuta giù per
troppo. Ho speso tutto. Ho chiuso gli account e col tempo, poco, la gente ha
smesso di chiedersi che fine avessi fatto. Poi arrivi tu e mi vuoi intervistare.
Beh, eccomi: ho quarant’anni, vivo in questo palazzo
pieno di tossici e mi drogo. Sono una tossica con la faccia di un mostro, ma
questo non crea molto scalpore, fra noi tossici.
Sai che c’è? Questo scrivilo: io mi voglio più bene
ora. Odio la vita che facevo, tutto quello che rappresentavo. Odio quella
ragazzina che si vantava delle sue fortune e le sbatteva in faccia agli altri.
Spettacolarizzare il cibo, quando c’è gente che non
mangia... Vantarsi dei viaggi quando c’è chi muore per varcare un confine.
Cazzate. Il cibo più buono è quello che sazia, il vestito migliore è quello più
comodo. E il viaggio non è mai una vacanza, hai capito? Come questa vita, dio
cane.
#7 Premiazione
Fred Cutton è scrittore, sceneggiatore e regista.
Sostiene che il vantaggio del cinema sia quello di poter mostrare in un istante
ciò che la letteratura può invece dire, in un istante. Eppure, pensa: “il
cinema non dovrebbe mostrare mai e la letteratura non dovrebbe dire mai!
Sarebbe meglio rinunciare a certi privilegi, imparando a dire con l’uno e a mostrare con l’altra.”
Appagato da questo pensiero, Fred Cutton si sentì
particolarmente ispirato, tanto da produrne altri simili. Accarezzò l’idea
d’intraprendere la carriera politica, perché aveva compreso che in politica
c’era un urgente bisogno di filosofi. Ottima intuizione, per uno che non era né
politico né filosofo.
Grazie a questa sua capacità di estraniarsi volando
con la fantasia, non si era accorto che anche il tempo era volato. Guardandosi
attorno realizzò di essere seduto in prima fila nel gran teatro in
cui si stava svolgendo la premiazione del più importante festival del cinema.
Sul palco c’era la talentuosa attrice Milenia Biürg,
con un lungo vestito che rifletteva le luci della ribalta. Aveva una
scollatura vistosa ma non volgare. La sua pelle chiara e giovane illuminava la platea, donando al mondo
del cinema tutto un aspetto di candore. Le passarono la busta.
Fred Cutton trasalì e si tirò su con la schiena: la
bravissima Milenia Biürg aveva appena pronunciato il suo nome insieme a quello
di altri candidati. Con le sue dita delicate aprì la busta ed esclamò con
gioia: «Ignacio Urrutia, con Glicine d’argento!»
Il pubblico applaudì copiosamente Ignacio e il suo
Glicine d’argento: una porcheria nella quale non si faceva altro che mostrare,
senza dire alcunché. La telecamera inquadrò Fred Cutton proprio
nell’istante in cui Fred Cutton, mostrando il labiale, disse: Ma porcodd!
#8 Depressione
Sono calmo. Però non sono uno di quei calmi che
quando si arrabbia chissà cosa fa. Sono calmo e basta. Depresso, dice il
dottore.
Il mio sogno è sempre stato quello di fare il
rapinatore. Ma ve lo immaginate un rapinatore depresso? Spalle
basse, arma ciondoloni, in mezzo a una banca prova a dire “QUESTA È UNA
RAPINA!”, ma non lo sente nessuno perché non tira fuori la voce. Quindi in
realtà sta dicendo “questa è… cioè, sarebbe… una rapina…” e mentre lo dice
lascia cadere il mento sul petto e se ne sta lì mentre lo sorpassa una
vecchierella.
Non riesco a immaginare. Se la polizia m'inseguisse dovrei fuggire? Mi fanno male i muscoli solo a pensarci. C’è un omino nel mio cervello
che aziona una leva con su scritto “io non sono in grado”. È così per tutto,
dice il dottore. Per quello ci sono delle pasticche che bloccano la leva,
addormentano l'omino, ma fanno venire sonno anche a me.
D’altronde, ho bisogno di soldi.
Del resto, non posso lavorare.
L’unica sarebbe una rapina in banca, almeno se mi
beccano mi mettono in cella. Tanto è come se già vivessi, in una cella, perché,
come ho già detto, sono depresso. Iniziò tutto con un esaurimento nervoso
quando avevo ancora il vecchio lavoro, era un periodo in cui non facevo altro
che dire, così, in loop: porco dio, porca madonna.
#9 Yaramanda Yogaranda
E dopo tutto quello che mi era successo, mi ero pure
ammalata: dolori improvvisi, mancanza di forza, tremori. Dopo un anno i medici
non mi avevano diagnosticato nulla. Tant’è che ci pensarono i miei amici, con
una sentenza unanime: «fattore psicologico, sei crollata».
«Ecco, vedi, il tuo è senz’altro un trauma non
elaborato. Il corpo parla», mi aveva detto Guido, fresco di corso online per
diventare yogi, «ti consiglio di andare da Yaramanda Yogaranda, anche
detto il cieco. È cieco, ma vede!»
Per provarle tutte, andai dal cieco. Arrivai di fronte
a una palazzina liberty, scura, accarezzata su un fianco da due grossi alberi
frondosi.
Arrivata al piano la porta era aperta. Entrai e un
intenso profumo di rose m’inondò i polmoni. Una luce bianca attraversava
la vetrata. I rami degli alberi producevano un gioco rapidissimo di ombre sulla parete e
sul pavimento dove, al centro, piccolo piccolo e a gambe incrociate, c'era Yaramanda Yogaranda, il
cieco.
Non sapevo dove mettermi. Lui con la sua cecità
occupava tutta la stanza, nel senso che avevo la sensazione che percepisse ogni mio movimento.
Disse cose che non poteva sapere, su mia madre, su mio
padre, su altri fatti molto intimi, tanto che m’inalberai.
Gli urlai cialtrone, o qualcosa del genere. E il cieco spalancò gli
occhi bianchi.
Uscii da lì e andai a cercare Guido a casa sua. Suonai
al campanello e cominciai a insultare anche lui, ma lui, con quel fare
arrendevole, quella “presenza cosciente” di cui parla sempre, sapeva solo
guardarmi e beccarsi la sfuriata.
«Io a Yaramanda non ho raccontato proprio
niente», mi disse richiudendo la porta.
Scesi in strada. E all'improvviso riapparve nella mia mente il cieco, fisso, non se ne andava, non come fanno i pensieri normali, rimase per molto tempo in un punto del mio cervello a fissarmi con i suoi occhi bianchi, e a ogni respiro sentivo un fortissimo profumo di fiori. Mi girò forte
la testa e pensai: “Cazzo di Buddah!”
#10 Operazione
È come leggere un libro al crepuscolo. Molto
lentamente l’oscurità sopraggiunge e la pagina scritta, ad un tratto, è diventata
solo un’ombra. Allo stesso modo s’invecchia e il corpo, e la mente, ad un
tratto…
Così, nel momento in cui mi appresto a mettere - per
la terza volta negli ultimi cinque anni - la mia vita nelle mani del Dottor De
Michelis, mi viene in mente invece la morte di mio padre.
Ero solo un ragazzo e quella era una sera inutile
d’inverno. Ci eravamo fatti una minestrina. Guardavamo la televisione in
silenzio. Il misuratore di share avrebbe potuto basarsi tranquillamente sul
numero dei nostri risucchi di minestrina: andavano diminuendo nei momenti di
maggior interesse, e aumentavano di ritmo nei frangenti più noiosi. Si partiva da
un ritmo medio: un risucchio di minestrina mio padre, uno io. Poi, quando
entravano le vallette mezze nude a fare il balletto, i risucchi diminuivano,
sparivano.
Finiva il balletto: un risucchio papà, uno io.
Arrivò la pubblicità e ci scatenammo aspirando il
brodo, in contemporanea, una raffica di risucchi, che i cucchiai sembravano
tre, quattro. Solo che, mentre stavamo entrambi testa bassa sul piatto, una
pubblicità disse queste parole: «vieni a scoprire la magia dei nostri prodotti!»
Alzai la testa verso il televisore, ma lo schermo era
nero fra una réclame e l’altra. Perciò continuai a mangiare. Ma si sentiva solo un
risucchio di minestra. Un solo risucchio di minestra durante la
pubblicità non si era mai sentito. Così mi girai per vedere se mio padre avesse
finito ed era lì: col collo all’indietro sullo schienale e gli occhi
spalancati, il suo polso era sul bordo del piatto e la mano annegata nella
minestra, insieme al cucchiaio. Mi alzai di scatto dalla sedia e gridai
solamente: porcoddio!
illustrazione di @pupazzaro |