martedì 27 agosto 2019

10 microracconti che finiscono tutti con una bestemmia


“10 microracconti che finiscono tutti con una bestemmia”. Microracconti perché non superano le 300 parole, perché vai sempre di fretta, perché hai altro da fare, lo so. Però non leggere di fretta. Proprio perché sono corti, leggili piano, fai un respiro, concediti un momento, chiudi le altre app, siediti, comodamente, lascia che tutto vada tranquillamente a fare in culo: sono solo 10 microscopici raccontini, nulla di che e niente di male. Piano-piano. Stai andando piano? Ecco, vai piano.


#1 Un barbone
Forse è il binomio “gigante-buono” ad ingannare chi di me si fida. Mi vedono così grosso e vogliono scherzare con me, forse per l’adrenalina, o forse perché pensano che sarebbe troppo disonesto, da parte mia, usare la mia stazza.
Credono che i chili in più io ce li abbia sulla pazienza. Puntualmente li mando all’ospedale.
Ragazzi, siete tutti così: voi vi approfittate tutti i giorni dei vostri privilegi, e io, che sono un cazzo di barbone, non dovrei rompervi il culo quand’è il mio turno?
Mi vedono per terra, tranquillo che leggo… Leggo quello che capita, classici più che altro. C’è Riccardino della bancarella sotto ai portici che mi presta qualche titolo. Ci sto attento a non rovinarglieli, poi glieli riporto. E dev’essere che mi vedono lì che leggo tranquillo, il grasso nasconde ogni spigolo della mia faccia e mi fa sembrare un tenerone, un bambolotto. Forse è questo. Sarà il mio aspetto a invogliare le persone a parlarmi. Sarà che sto seduto per terra con una pancia enorme e sembro lento ad alzarmi.
L’altro giorno è stato il turno di un ragazzetto di periferia alle prime gitarelle in centro. Stava con gli amichetti, mi ha visto, gli sono sembrato interessante, probabilmente; si è avvicinato con quel cazzo di telefonino e mi voleva fare il video, non so perché, non so che cazzo avesse da ridere. Nel dubbio: pizza in faccia, lungo per terra. Non mi dovete cacare il cazzo, porcoddio.

illustrazione di @pupazzaro



#2 La baracca
Non c’è niente che unisca un popolo meglio della povertà. E se il popolo sono solamente due persone intrappolate improvvisamente per qualche motivo in una baracca, l’unione può diventare davvero solida.
Franco sono settantadue anni che odia Vittorio per una faccenda di terreni confinanti e recinzioni, ma se Vittorio trovasse il modo di rimediare un abbacchio, Franco sarebbe pronto ad abbracciarlo e baciarlo, anzi, non potrebbe farne a meno; e mai abbraccio sarebbe più sincero. E Vittorio, al cui orecchio erano sempre giunte, per vie traverse, le invettive che Franco gli aveva rivolto per anni, riporrebbe ogni rancore e sarebbe pronto perfino a brindare con lui, se solo si trovasse qualcosa da bere.
Fuori piove a dirotto e grandina da due giorni. Tocchi grossi come sampietrini torturano la baracca. La campagna attorno, sottomessa e muta, riceve le ammonizioni del cielo con improvvise frustate. Dopo il lampo non passa un secondo che il tuono rimbomba come il passo di un gigante.
«Secondo la radio ne avremo per tre giorni», dice Vittorio, rivolgendosi a Franco per la prima volta dopo anni, sorridendo involontariamente.
Franco lo guarda con occhi gelidi, che però si sciolgono all'istante. Un angolo della bocca gli va all’insù, come a sancire la pace, che infatti sugella esclamando: «ma porca la madonna!»



#3 Trinità
Qui al numero 3 c’era il racconto più bello di tutta la storia dei racconti. Perché il racconto più bello, irripetibile, irrecuperabile, è sempre quello che viene scritto di getto. Viene scritto di getto e poi cancellato per sbaglio senza avere salvato, porcoddio. E qui la bestemmia può essere doppia perché, se Dio è il salvatore, perché non l’ha salvato, porcoddio?



#4 Inquartato
Stava chiaramente utilizzando il cibo come sedativo. Quando lo stomaco lavora, la mente ha meno energie, innanzitutto. Un’analisi molto semplice, per noi che osserviamo con distacco. Lui di questi semplici meccanismi ne era completamente all’oscuro. Lui apre il frigo e mangia, apre la credenza e mangia, fruga nelle tasche e mangia. Seduto sul divano è dove mangia più spesso. Ora un intruglio intinto col pane. Strappa una pagnotta. Sul polso, fra la mano e il braccio, ha una piega che separa il grasso della mano da quello del braccio. La pelle è diventata liscia come quella di un bimbo. Prima era un figurino. Poi ha perso il lavoro. Dopodiché si è lasciato con la compagna. E gli è morta la madre. Non avevano un bel rapporto e perciò questa notizia non avrebbe dovuto sconvolgerlo più di tanto. Ma si andava a sommare. Poi è venuto a sapere che un suo cugino aveva ottenuto un ottimo lavoro che gli fruttava cinquemila al mese. Non lo vedeva da anni, ma da piccoli giocavano sempre insieme e, ogni volta che le due famiglie s’incontravano, le mamme li mettevano vicini per misurarne le altezze. Neanche questa notizia avrebbe dovuto condizionarlo negativamente: madri vive e posti di lavoro non equamente distribuiti non sono un problema così grave. Poi aveva fatto diversi colloqui, con esito negativo. Oggettivamente non aveva più l’aspetto di un elemento buono da spremere sul lavoro. Sembrava ormai privo di succo.
Arrivò l’inverno, la luce fredda del mattino si posò sul divano, appassito come una prugna sotto al suo peso, nel punto in cui sedeva sempre. Prima di passare dal divano al letto, si guardò allo specchio: aveva meno capelli, più barba, più chili, molti più chili. Con un respiro rumoroso riconobbe sé stesso dentro ai suoi occhi e disse: Porca Madonna.



#5 Una figlia e un padre
«Papà, dove li metto questi?» dice la bambina.
«Ma ammucchiali e buttali là, che ti frega!» risponde il papà.
«Ma mamma dice…»
«Buttali là! Non fa niente. Questi sono i giorni che passi con me. Non li sprechiamo: oggi non hai doveri! Dai che ci facciamo una carbonara…»
«Ma sei disordinato.»
«Lo so, lo so, ha ragione la mamma, tu devi ascoltarla sempre. Le cose che dice sono tutte giuste e ti aiuteranno a vivere meglio, ok? Però lei ti ha tutto il tempo, io solo due giorni a settimana, quindi godiamoceli… I panni poi me li piego, va bene?»
«Ma dai, papà! Te li devi sistemare così poi trovi tutto bello ordinato!»
«Allora, che ti ha detto papà? Che i panni poi me li piego. Dai, vieni qua che adesso inizia pure la partita…»
La bambina indietreggia leggermente.
«Ma io non voglio vedere la partita…» (broncio).
«Ma la partita è bella, appapà. Vabbè, vabbè-vabbè, decidi tu, basta che stiamo insieme… magari facciamo zapping, ogni tanto, che ne dici?»
«No...» (sorriso perfido, ma irresistibile. Da chi l’avrà ereditato? Mistero).
«Sì, amore, vabbè, decidi cosa vuoi vedere. Anzi, rimetti un attimo sulla partita, poi cambiamo. Mi aiuti con la pasta?»
«No!» (si è seduta a tavola, schiena dritta, telecomando in pugno, quant’è bella).
«Ma amore, cos'hai? Dai, metti un attimo sulla partita, guarda, rompi quest’uovo. Papà t’insegna…»
«None.»
«Guarda come si fa: l’hai mai fatto?»
«Lo hai detto tu.»
«Che ho detto?» (espressione viso + mano italiana)
«Lo hai detto tu che oggi non ho doveri.»
«Epperò sei peggio de tu madre, porcod...due.»



#6 Influencer
A vent’anni ero influencer e a 22 non più. Ho iniziato con le foto in cui surfavo. Le spiagge dei surfisti sono bellissime. Postavo foto di viaggi, abiti e cibi esclusivi. Ero bella e sulla cresta dell’onda, davvero.
Un giorno, a Londra, mi hanno tirato l’acido in faccia. Erano miei follower, fa ridere questa cosa? È bastato un bicchiere e mi hanno sfigurata per sempre.
All’inizio ho combattuto, ho continuato a postare con la faccia deturpata. Sono diventata più famosa. Un simbolo. Sembravo davvero convinta, ho reagito alla grande, ho tenuto conferenze motivazionali, mi ero messa in testa che la bellezza fosse tutt’altro. Ho cambiato totalmente messaggio. Ma era una menzogna, che raccontavo prima di tutto a me stessa. Nel frattempo mi sottoponevo a operazioni estetiche costose e inutili. La depressione è piombata su di me come un’onda grande che mi ha tenuta giù per troppo. Ho speso tutto. Ho chiuso gli account e col tempo, poco, la gente ha smesso di chiedersi che fine avessi fatto. Poi arrivi tu e mi vuoi intervistare.
Beh, eccomi: ho quarant’anni, vivo in questo palazzo pieno di tossici e mi drogo. Sono una tossica con la faccia di un mostro, ma questo non crea molto scalpore, fra noi tossici.
Sai che c’è? Questo scrivilo: io mi voglio più bene ora. Odio la vita che facevo, tutto quello che rappresentavo. Odio quella ragazzina che si vantava delle sue fortune e le sbatteva in faccia agli altri.
Spettacolarizzare il cibo, quando c’è gente che non mangia... Vantarsi dei viaggi quando c’è chi muore per varcare un confine. Cazzate. Il cibo più buono è quello che sazia, il vestito migliore è quello più comodo. E il viaggio non è mai una vacanza, hai capito? Come questa vita, dio cane.



#7 Premiazione
Fred Cutton è scrittore, sceneggiatore e regista. Sostiene che il vantaggio del cinema sia quello di poter mostrare in un istante ciò che la letteratura può invece dire, in un istante. Eppure, pensa: “il cinema non dovrebbe mostrare mai e la letteratura non dovrebbe dire mai! Sarebbe meglio rinunciare a certi privilegi, imparando a dire con l’uno e a mostrare con l’altra.”
Appagato da questo pensiero, Fred Cutton si sentì particolarmente ispirato, tanto da produrne altri simili. Accarezzò l’idea d’intraprendere la carriera politica, perché aveva compreso che in politica c’era un urgente bisogno di filosofi. Ottima intuizione, per uno che non era né politico né filosofo.
Grazie a questa sua capacità di estraniarsi volando con la fantasia, non si era accorto che anche il tempo era volato. Guardandosi attorno realizzò di essere seduto in prima fila nel gran teatro in cui si stava svolgendo la premiazione del più importante festival del cinema.
Sul palco c’era la talentuosa attrice Milenia Biürg, con un lungo vestito che rifletteva le luci della ribalta. Aveva una scollatura vistosa ma non volgare. La sua pelle chiara e giovane illuminava la platea, donando al mondo del cinema tutto un aspetto di candore. Le passarono la busta.
Fred Cutton trasalì e si tirò su con la schiena: la bravissima Milenia Biürg aveva appena pronunciato il suo nome insieme a quello di altri candidati. Con le sue dita delicate aprì la busta ed esclamò con gioia: «Ignacio Urrutia, con Glicine d’argento!»
Il pubblico applaudì copiosamente Ignacio e il suo Glicine d’argento: una porcheria nella quale non si faceva altro che mostrare, senza dire alcunché. La telecamera inquadrò Fred Cutton proprio nell’istante in cui Fred Cutton, mostrando il labiale, disse:  Ma porcodd!



#8 Depressione
Sono calmo. Però non sono uno di quei calmi che quando si arrabbia chissà cosa fa. Sono calmo e basta. Depresso, dice il dottore.
Il mio sogno è sempre stato quello di fare il rapinatore. Ma ve lo immaginate un rapinatore depresso? Spalle basse, arma ciondoloni, in mezzo a una banca prova a dire “QUESTA È UNA RAPINA!”, ma non lo sente nessuno perché non tira fuori la voce. Quindi in realtà sta dicendo “questa è… cioè, sarebbe… una rapina…” e mentre lo dice lascia cadere il mento sul petto e se ne sta lì mentre lo sorpassa una vecchierella.
Non riesco a immaginare. Se la polizia m'inseguisse dovrei fuggire? Mi fanno male i muscoli solo a pensarci. C’è un omino nel mio cervello che aziona una leva con su scritto “io non sono in grado”. È così per tutto, dice il dottore. Per quello ci sono delle pasticche che bloccano la leva, addormentano l'omino, ma fanno venire sonno anche a me.
D’altronde, ho bisogno di soldi.
Del resto, non posso lavorare.
L’unica sarebbe una rapina in banca, almeno se mi beccano mi mettono in cella. Tanto è come se già vivessi, in una cella, perché, come ho già detto, sono depresso. Iniziò tutto con un esaurimento nervoso quando avevo ancora il vecchio lavoro, era un periodo in cui non facevo altro che dire, così, in loop: porco dio, porca madonna.



#9 Yaramanda Yogaranda
E dopo tutto quello che mi era successo, mi ero pure ammalata: dolori improvvisi, mancanza di forza, tremori. Dopo un anno i medici non mi avevano diagnosticato nulla. Tant’è che ci pensarono i miei amici, con una sentenza unanime: «fattore psicologico, sei crollata».
«Ecco, vedi, il tuo è senz’altro un trauma non elaborato. Il corpo parla», mi aveva detto Guido, fresco di corso online per diventare yogi, «ti consiglio di andare da Yaramanda Yogaranda, anche detto il cieco. È cieco, ma vede!»
Per provarle tutte, andai dal cieco. Arrivai di fronte a una palazzina liberty, scura, accarezzata su un fianco da due grossi alberi frondosi.
Arrivata al piano la porta era aperta. Entrai e un intenso profumo di rose m’inondò i polmoni. Una luce bianca attraversava la vetrata. I rami degli alberi producevano un gioco rapidissimo di ombre sulla parete e sul pavimento dove, al centro, piccolo piccolo e a gambe incrociate, c'era Yaramanda Yogaranda, il cieco.
Non sapevo dove mettermi. Lui con la sua cecità occupava tutta la stanza, nel senso che avevo la sensazione che percepisse ogni mio movimento.
Disse cose che non poteva sapere, su mia madre, su mio padre, su altri fatti molto intimi, tanto che m’inalberai.
Gli urlai cialtrone, o qualcosa del genere. E il cieco spalancò gli occhi bianchi.
Uscii da lì e andai a cercare Guido a casa sua. Suonai al campanello e cominciai a insultare anche lui, ma lui, con quel fare arrendevole, quella “presenza cosciente” di cui parla sempre, sapeva solo guardarmi e beccarsi la sfuriata.
«Io a Yaramanda non ho raccontato proprio niente», mi disse richiudendo la porta.
Scesi in strada. E all'improvviso riapparve nella mia mente il cieco, fisso, non se ne andava, non come fanno i pensieri normali, rimase per molto tempo in un punto del mio cervello a fissarmi con i suoi occhi bianchi, e a ogni respiro sentivo un fortissimo profumo di fiori. Mi girò forte la testa e pensai: “Cazzo di Buddah!”



#10 Operazione
È come leggere un libro al crepuscolo. Molto lentamente l’oscurità sopraggiunge e la pagina scritta, ad un tratto, è diventata solo un’ombra. Allo stesso modo s’invecchia e il corpo, e la mente, ad un tratto…
Così, nel momento in cui mi appresto a mettere - per la terza volta negli ultimi cinque anni - la mia vita nelle mani del Dottor De Michelis, mi viene in mente invece la morte di mio padre.
Ero solo un ragazzo e quella era una sera inutile d’inverno. Ci eravamo fatti una minestrina. Guardavamo la televisione in silenzio. Il misuratore di share avrebbe potuto basarsi tranquillamente sul numero dei nostri risucchi di minestrina: andavano diminuendo nei momenti di maggior interesse, e aumentavano di ritmo nei frangenti più noiosi. Si partiva da un ritmo medio: un risucchio di minestrina mio padre, uno io. Poi, quando entravano le vallette mezze nude a fare il balletto, i risucchi diminuivano, sparivano.
Finiva il balletto: un risucchio papà, uno io.
Arrivò la pubblicità e ci scatenammo aspirando il brodo, in contemporanea, una raffica di risucchi, che i cucchiai sembravano tre, quattro. Solo che, mentre stavamo entrambi testa bassa sul piatto, una pubblicità disse queste parole: «vieni a scoprire la magia dei nostri prodotti!»
Alzai la testa verso il televisore, ma lo schermo era nero fra una réclame e l’altra. Perciò continuai a mangiare. Ma si sentiva solo un risucchio di minestra. Un solo risucchio di minestra durante la pubblicità non si era mai sentito. Così mi girai per vedere se mio padre avesse finito ed era lì: col collo all’indietro sullo schienale e gli occhi spalancati, il suo polso era sul bordo del piatto e la mano annegata nella minestra, insieme al cucchiaio. Mi alzai di scatto dalla sedia e gridai solamente: porcoddio!

illustrazione di @pupazzaro