Non so dove sono. Non so perché non so dove sono. Non so cosa sto pensando
né se sto pensando veramente. Sento solo caldo e stringo gli occhi al sole.
Davanti a me c’è un muro mezzo diroccato assediato dall’erba. Sul muro stanno
sopravvissute le mattonelle valenziane, che per il colore dello smalto e il
caldo che fa, ho sperato per un attimo fossero di ghiaccio. Non sono di
ghiaccio, ma spingendoci sopra una guancia posso dire che almeno sono fresche.
Mattonelle valenziane. Eppure questa non è la mia cara città spagnola. Mi
arrivano all’orecchio vocali impastate che odorano di zagara. Arrivano con
un’eco intrisa di fritto e melanzane. «Panelle, panelle calde panelle» dice un omino poggiato alla lapa, giù in fondo alla via.
Dietro la curva un rumore di sfasciume anticipa l’apparizione di
un autobus, che sulla fronte tiene scritto Siracusa-Palermo. Si ferma, spegne
il motore. Il sole è così perpendicolare che il bestione non fa ombra alcuna,
se non esattamente sotto la sua pancia.
Dunque, sono in Sicilia. Ma perché?
Mentre il calore squaglia – oltre che l’asfalto – l’ambra che imprigiona i
miei ricordi, passa un picciotto niuru niuru, ma italiano eh! niuru siciliano,
ci mancherebbe, che fa le impennate col motorino. Pem, pem pem. Mentre impenna gira
da un lato e dall’altro la ruota anteriore, come sfoggio ulteriore di
destrezza. Pem, pem pem.
Io lo guardo e me ne sto seduto per terra con le mani in testa. Mi passo le dita fra i capelli, mi blocco, perché in un punto trovo la pelle e non i
capelli: una precisa linea retta, calva, come un colpo d’accetta.
Forse ricordo.
Stamattina, ieri, ieri mattina, mi ricordo che stavo cercando una lametta, mi ha chiamato al telefono la mia zita. Donna affettuosa ma determinata
è. L’avevo accompagnata e lasciata poco prima dal parrucchiere, sì, mi ricordo.
E quando sono rientrato a casa di sua zia lei mi ha richiamato: «vieni, vieni, raggiungimi qui,
che te la definiscono loro la barba, mentre mi fanno la piega a me, dai. Ma
vieni subito, ché poi chiudono per pranzo». Mi pare di
aver risposto «non c’è bisogno, faccio con la lametta», ma donna determinata
prima che affettuosa è.
Ho percorso la
lunga via, che era completamente infiorata da una primavera che aveva latitato per
tutta la primavera, ma che poi si era presentata, sull’uscio dell’estate, come
una dragqueen su un carro del pride, adornata di piume e le braccia all’insù, gridando “tadàn!”
Fiori e macchine.
Confusione. Il problema di Palermo è chiaramente il traffico.
Arrivo davanti al
parrucchiere, tale Barrucieddu. Io mi credevo fosse un negozietto a conduzione
familiare, ma apro la porta e sento una specie di sirena: «miiiiiiiiii», come
quelle porte che appena entri suonano. Ho richiuso la porta e ho udito l’allarme
completo: «miiiiiiiiinchia, è arrivato lo scrittore!» La sirena, mezza donna
mezza parrucchiera, era la proprietaria della baracca. Donna in carne e
cumannera, caschetto biondo platino, sottovuoto in un vestito nero di
latex. Dotata di frusta, stimolava a scudisciate shampisti e parrucchieri.
La Sicilia è più matriarcale di quanto non si pensi.
La Sicilia è più matriarcale di quanto non si pensi.
«Mi hanno già
spiegato, non mi devi dire niente», mi disse, «la tua signora – pausa –
è al piano di sopra. Tu – pausa – qua devi stare.»
«Dove mi devo mettere?»
«Accomodati lì!»
Mi giro e vedo gli spalti: il negozietto a conduzione familiare era grosso come uno stadio.
«Quand’è il tuo turno ti chiama lui», e indica un picciotto
niuru niuru, sicano, lampadato, mica niuru vero, ci mancherebbe, che faceva le
impennate col motorino e passava a prendere i clienti per accompagnarli fino
alle postazioni. Pem, pem pem. Ora mi ricordo. Mi ricordo l’orizzonte dove
beccavano i becchi delle pinzette, svolazzavano le sopracciglia con le ali dei
gabbiani, seducendo sé stesse agli specchi, mentre folti ciuffi di capelli
migravano verso i phon. Correnti di scirocco sulle chiome nere. Cascate d’acqua
e spuma scrosciavano in sottofondo, mentre il reggaeton pompava dalle casse.
“Dov’è la mia
compagna?” ricordo di aver pensato.
A quel punto la
signora Barrucieddu è passata in mezzo alla sala, moltiplicando all’infinito la
sua immagine nel perimetro di specchi. Sollevava un cartello con scritto “2nd
round”. E tutti gli shampisti, gli unghisti, i sopraccigliatori, i barbieri, si
sono scambiati i clienti e le postazioni, con una coordinazione che diede alla
sala tutto un movimento da telaio.
Pem, pem pem,
«monta!» mi disse il picciotto su una ruota. Io non ebbi alternativa, e al volo
montai.
***
«Panelle, panelle
calde panelle» ripete l’omino poggiato alla lapa. Pem, pem pem, lo raggiunge il
picciotto niuru. Parlano. Mi sembra puntino le loro parole verso di me. Mi
sento addosso l’occhio del picciotto, mi guarda e addenta un panino con le
crocchè. Sento il sole caldo sulla faccia. Giro lo sguardo, non vedo niente: la
luce rende tutto bianco.
Ora ricordo. Non
vedevo niente, avevo un panno bollente sulla faccia che mi tappava gli occhi
e rendeva tutto nero. Poi hanno tolto il panno e ho visto il barbiere, e ho sentito
il fresco mentolo sulla pelle. Rapide sciabolate di lametta. Barba sistemata.
«A Torino – pausa
– barbieri bravi – pausa – non ce ne sono!» sentenziò la signora
Barrucieddu. Aveva parenti al nord, la signora Barrucieddu, ed era stata
informata dei nostri spostamenti dalla mia zita. Già, sto ricordando tutto:
siamo partiti da Torino perché la mia zita vive lì, ma ha parenti qui. Giusto.
È siciliana, perciò siamo venuti per qualcosa che ha a che fare coi suoi
parenti…
«Oggi giornata di
matrioni è! Sei di matrimonio?» mi chiese il barbiere.
“Di matrimonio?”
pensai. «Sì», risposi, «si sposa il cugino carnale della mia compagna…» Mi era
parso che il termine “carnale” donasse alla mia frase un tono più familiare,
più gastronomico, più siciliano, ecco. Bedda carnazza. La signora Barrucieddu
guardò il barbiere e disse: «continentali… i continentali sono gentili – pausa
– ma non capiscono niente! Rrosario, facci la sfumatura qua dietro, poi ci fai
una bella rriga laterale. Hai capito, Rrosario?»
Rosario aveva
capito perfettamente. Lo dedussi dallo sguardo serio e dal tono deciso col quale
mi chiese: «lo vuoi un caffè?»
«Un caffè non si
rifiuta mai», risposi io.
«Picciotto! Un
caffè al signore!» disse Rosario al centauro, e sottovoce: «continentali…»
Pem, pem pem. È
arrivato il caffè. L’ho bevuto. E poi non ricordo.
Anzi sì, mi
ricordo: Rosario ha fatto ruotare la poltrona sulla quale dormivo. Ho aperto
gli occhi e ho visto la mia faccia allo specchio. Parevo un altro, bello, un
calciatore, sembrava perfino che avessi più capelli. «Ma come hai fatto,
Rosario?»
«A Torino,
barbieri bravi – pausa – non ce ne sono.»
E mi aveva fatto
questa riga da una parte. Con la lametta. Un centimetro e mezzo di larghezza,
questa linea rasata. Ecco cosa ho in testa: non un colpo d’accetta, ma un
vezzo. Che va di moda. Infatti ero più bello, andando di moda. E avevo tutta la
testa rasata e sfumata. Rosario mi ha spiegato che è meglio. Poi quando
ricresce la peluria sul collo ricresce insieme a tutto e non si nota. Era uno preparato, in quanto a capelli, Rosario.
Mi ha in indicato
con la mano la scala a chiocciola.
Dal piano di sopra scendeva la mia zita. Il reggeaton si trasformò subito in una specie di neomelodico campano, molto in voga a Palermo.
Dal piano di sopra scendeva la mia zita. Il reggeaton si trasformò subito in una specie di neomelodico campano, molto in voga a Palermo.
Mammamì quant si bell, Zingarella mia
Tu me par’a cerasella, zingarella mia
Uééé, zingara gitana, femmena rumeeena
Uééé, ‘o ffuoc mio è p semp, ‘o sue fin’e diman…
Lei scendeva
senza muovere la testa, per non scompigliare un’acconciatura che parevano tre. La
signora Barriucieddu la prese sottobraccio e l’accompagnò da me e Rosario, che
attendevamo sull’altare… ehm, volevo dire alla cassa. Spendemmo un matrim… ancora,
un patrimonio, spendemmo un patrimonio. Sono confuso.
Il matrimonio,
certo, del cugino carnale. Ci siamo vestiti a festa di corsa, senza
scompigliare l’acconciatura, sempre correndo, abbiamo raggiunto la chiesa. La
chiesa di quartiere, frequentata fin da piccolo dal cugino carnale, stava vicino
a quel complesso di case popolari chiamato lo Zen. Ricordo di aver pensato a un
conflitto religioso, ma mi sono subito distratto con l’omino che, sulla
porta della chiesa, ripeteva la litania: «panelle, panelle calde panelle…»
Stavano tutti a
prendere le panelle. Le acquasantiere erano senz’acqua, ma piene d’olio per
farci la scarpetta. Ci inzuppavano il pane, ci facevano il segno e poi se lo
mangiavano e amen. Io ho fatto esattamente quello che facevano tutti. Poi è arrivata
la sposa, è partita la messa. E alzati, e siediti, e sia lodato, e scambiati un
segno di pace. Bacia chiunque. Lo sposo bacia la sposa. E poi il prete ha sollevato
l’ostia. E io l’ho visto: sotto l’abito talare aveva un pantalone nero di
latex. E poi quel caschetto biondo platino mi ricordava… ha spezzato l’ostia e
ha detto: «prendete e mangiatene tutti – pausa – è piena di rricotta!»
Allora io mi sono
messo in fila, ma solo perché mi piace la ricotta, e ho mangiato l’ostia. Stavano
pure le gocce di cioccolato. Il chierichetto, niuru niuru, mi guardava e rideva
e col labiale mi diceva «pem, pem pem».
Poi siamo andati,
leccandoci i baffi, fuori la chiesa, e l’omino delle panelle ci ha fornito le
arancine.
«Queste non le devi mangiare», mi spiegò Rosario.
«Queste non le devi mangiare», mi spiegò Rosario.
«Rosario, ma che
ci fai qui?»
«Cugino carnale
del cugino carnale sono. Queste vanno tirate agli sposi quando escono», e poi
sottovoce «continentali…»
Uscirono gli sposi
e partì la sassaiola di arancine. Quando i novelli stramazzarono al suolo,
qualcuno gridò: «tutti al ristorante!»
***
L’omino delle
panelle, giù in fondo alla via, ha chiuso la lapa, l’ha accesa. Pure il
picciotto ha riacceso il motorino. Stanno venendo verso di me. Chissene frega.
Non ce la faccio ad alzarmi. Porgo l’altra guancia sulle fresche mattonelle
valenziane, e mentre si avvicina quest’odore di fritto, si avvicinano pure
altri ricordi. Tutti di cibo.
Quanto ho
mangiato al matrimonio? Al primo giro di abbuffet ero già esausto. E poi avevo
bevuto, tutto ciò che passava io lo bevevo, perché non conoscevo nessuno e mi
vergognavo. C’era un picciotto niuru niuru, sicilianissimo, che passava col
vassoio e veniva sempre da me. Sempre da me. Mi dava da bere, da mangiare,
sempre da me. E io mi cafuddai tutte cose, senza ritegno. Mi tenevo la bocca
occupata per evitare così di parlare con gli altri invitati.
Il gruppo dal vivo
intanto cantava:
Mammamì quant si bell, Zingarella mia
Tu me par’a cerasella, zingarella mia
Uééé, zingara gitana, femmena rumeeena
Uééé, ‘o ffuoc mio è p semp, ‘o sue fin’e diman…
E dopo la cena al
tavolo di cento portate, il cantante ha detto: «gli invitati sono pregati di
tornare all’abbuffet, dove verrà tagliata la torta e verranno serviti i dolci».
Siamo tornati all’abbuffet.
Hanno sparato i fuochi d’artificio e gli sposi hanno tagliato la torta. Io, mi
ricordo, ho snobbato la torta e ho puntato i miei dolci preferiti: le
cassatine. Ero pieno fino in gola, ma quelle erano cassatine, non minne di sant’Agata
catanesi, cassatine palermitane, con la pasta martorana verde. Che io non ci rinuncio
neanche se sto per vomitare. Non ci rinuncio, io. E le ho mangiate, una dopo l’altra.
E mi si chiudevano gli occhi, vedevo davanti a me il cameriere niuru niuru che
m’incitava e mi faceva cenno di seguirlo. Il cameriere niuru niuro, che mi
pareva uguale al chierichetto niuru niuru, al picciotto niuru niuru su una
ruota. Mi guardava col sorriso e mi diceva a voce «pem, pem pem, tu devi
digerire, ti facciamo digerire noi…» e mi ha portato sul retro con gli altri
camerieri che stavano fumando erba. Mi ha detto «fuma questa, è roba nostra,
fatta in casa», e mi ha mostrato una cimetta d’erba più verde della pasta martorana.
L’ha sbriciolata,
al volo l’ha girata e me l’ha passata.
«Chi l’ariccia, l’appiccia»
gli ho detto io, praticamente ruttando.
«Vai tranquillo!»
mi ha ordinato lui, e poi a bassa voce: «continentali…», c’era pure Rosario che
mi guardava e mi diceva: «fuma, fuma!»
Di Rosario mi
sono fidato. Ho fumato. Non ho mai sentito nulla di più potente. Dopo tre tiri ho
guardato il riflesso del mio volto sulle finestre della cucina: la faccia mi
era diventata colore di zolfo, tremavo. Restai per un attimo sospeso, come
tirato su per i capelli da una mano invisibile; mi cadde la canna di mano e
sulla canna lentamente mi afflosciai.
***
Pem, pem pem. Stacco la guancia dalle mattonelle valenziane e davanti a me mi trovo il picciotto niuru niuru sul motorino, e l’omino delle panelle appoggiato alla lapa. Mi giro, l’autobus con scritto in fronte Siracusa-Palermo si piega dal lato della porta, e una volta scesa la signora Barrucieddu, si raddrizza. Dietro di lei compare Rosario. Guardo le loro facce che sembrano facce di ciechi, senza sguardo.
«Lo sai dove ti trovi?» mi dice l’omino delle panelle.
«No», gli
rispondo, con occhi di sarda morta.
«Al chiarchiaro, ti
trovi. L’hai letto Sciascia?»
«Lo devo leggere,
ancora.»
«Eh. Leggilo – pausa
– se avrai tempo…» mi dice il picciotto niuru, scatenando le risatine di tutti.
Ho paura. Per la
prima volta da quando mi sono svegliato, sono abbastanza sveglio da avere paura.
Il mio cuore ha un guizzo doloroso, come del coniglio in bocca al cane.
Mi vergogno di quello
che mi ha suggerito il pensiero. In questo momento penso “polizia”. E immediatamente
sento una sirena, che mi squarcia la mente come un’iniezione di speranza, «Miiiiiiiiiii»,
ma la sirena ha continuato: «miiiiiiiiinchia! Lo scrittore dei mie coglioni!»
«Salve, signora
Barrucieddu»
«Ma quale minchia
di signora Barrucieddu! Lo sai chi sono io?»
«Il prete?» dissi,
scatenando altre risatine.
«Ma chi prete e prete!
Questo non ci ha capito niente!»
Non avevo capito
niente: l’omino della lapa, sempre co ste panelle; Rosario, pure al matrimonio
e ora anche qui; il picciotto niuru niuru co sto motorino, pem pem, uguale al chierichetto
e al cameriere…
«Ciro ti chiami –
pausa – è vero?»
«Sì, sì, vabbè… è
il mio nome di penna.»
«Hai sentito,
Rrosario? Il suo nome di penna. Ma perché, che vorresti fare tu, dicci – pausa
– dicci, dicci!»
«No, vabbè. Niente.»
«No, dicci, dicci!
Se sei un uomo.»
«Lo scrittore!»
Silenzio. «Ntz»,
disse l’omino della lapa.
«Lo scrittore
vuole fare, lo scrittore. Santa Madonna! C’è cascato come in una pentola il
cappone. Lo scrittore! Terrore della spietata inquisizione, della nera semenza
della scrittura. Bianca campagna, nera semenza: l’uomo che la fa, sempre la pensa.
E tu ti credevi di alzarti un mattino e diventare scrittore? Come ti sei permesso,
di scrivere un manoscritto, rivederlo, correggerlo, farti disegnare una
copertina come la volevi, ma soprattutto – pausa – come minchia ti sei
permesso di pubblicarlo? Ma lo sai chi siamo noi? Eh?»
«Non ne ho idea.»
«È chiaro che non
ne hai idea. Guardami qua», disse la signora Barrucieddu: «io sono l’editoria!
Hai capito? Mi conoscevi?»
«No, non la
conoscevo. E ancora non è che…»
«Statti zitto! E
lo sai chi è lui?» indicando il picciotto niuru niuru, «è la discibbuzziòne! E lui
delle panelle? È le librerie che non ti s’inculeranno mai. Capisti?»
«Ma, ma... io
volevo solo…»
«E Rrosario,
questo professionista qua, lo sai chi è? È il maccheting; e pure i blog di
letteratura; le rriviste; i concorsi letterari, che come le librerie – pausa
– non ti s’inculeranno mai!»
«Ma… ma perché?»
«Pecché dovevi
prima passare da noi. Hai capito? Ci dovevi chiedere il pemmesso. Capisti?»
E Rosario mi
punta in faccia la lupara.
«Va bene, va bene
ho capito, cancello tutto, ma per favore, non uccidetemi, cancello tutto…»
L’omino delle
panelle apre bocca e dice: «no. Non ci piacciono i pentiti. Ormai hai scritto.
Le parole non sono come i cani cui si può fischiare a richiamarli».
«Solo una cosa ti
può salvare», disse Rosario.
Io non parlai, ma
si capiva che attendevo la risposta come un naufrago la riva.
«Hai bisogno
della nossra rrecenziòne.»
“La recensione?
Sì, mi serve!” pensai.
«Tutti hanno
bisogno di una buona rrecenziòne. Noi ti offriamo la nossra rrecenziòne. Altrimenti
ti può succedere, così per caso, che qualcuno viene e ti lascia una cattiva
rrecenziòne. Hai capito?»
«Ho capito. Capito.
Ma che devo fare?»
«Tutto ci devi
dare, hai capito? Tanto peccominciari alla signora Barrucieddu c’hadda dari i
diritti. Quello che hai scritto – pausa – diventa di sua proprietà. Poi lei
sa come spattire i guadagni col picciotto della moto pure, eh! Perché – pausa
– senza benzina lo vuoi lasciare? E poi artri piccioli ce li diamo al panellaro,
e pure a me, certo!»
«E io?»
«Miiiinchia, tu
diventi uno scrittore. Il tuo sogno! Non sei contento?»
«Sì!»
***
E così sono
diventato un vero scrittore. Il mio libro è stato pubblicizzato in televisione; sta sempre bell’esposto nelle librerie, nei reparti dei “consigli”; sui manifesti
per strada; e la gente, a forza di vederlo, non solo si è accorta della sua esistenza,
ma si è anche convinta che sia un capolavoro. Organizzano eventi dove si creano
delle file lunghissime, lunghe come da Siracusa a Palermo, di gente che vuole
solo un mio autografo sul libro.
Io continuo a non
avere un soldo, ma sono un grande scrittore! Devo dire grazie ai miei amici,
che mi hanno offerto la loro rrecensione e hanno contattato a loro volta i loro
amici per ottenere più rrecensioni. Eccone alcune:
Anche da parte di scrittori di grande successo.
E infine hanno detto a tutti dove si può comprare e la gente l'ha comprato. Perché glielo hanno detto talmente tante di quelle volte che alla fine la gente lo ha comprato. Gli hanno lasciato questo link così tante volte che alla fine la gente si è decisa. Gli hanno spiegato ripetutamente che c'è sia l'ebook che il cartaceo, che poi gli è entrato in testa. Una cantilena. Hanno ripetuto i link, e ancora e ancora. Che petulanti! Eccoli qui:
E-book -- https://www.amazon.it/dp/B07SD8FS9N
Cartaceo-- https://www.amazon.it/dp/1097608220
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