venerdì 3 gennaio 2020

LA VOCE DEL PADRONE - pizzeria kakakazzi




Capitolo 1
Di quando spiego la vocina


La tua simpatia non dipenderà dalle battute che farai, ma da quanto riderai a quelle altrui, disse una vocina nella testa di Alberto. Tu purtroppo non fai battute né tantomeno ridi mai, quindi hai scarse possibilità di risultare simpatico.
Aveva una vocina nel cervello da quando era piccolo. Che poi il termine “vocina” è rimasto, ma col tempo era diventato inappropriato perché, crescendo con lui, la vocina si era trasformata in un vero e proprio vocione d’uomo. Quella che avrebbe un cane di grossa taglia se potesse parlare.

All’età di circa dieci anni gli venne una febbre che gli durò un mese intero. «Quella febbre ti ha fatto crescere tanto, figlio mio. Quando ti sei alzato da quel letto eri alto due metri, ti ho dovuto ricomprare tutti i vestiti. Ti ha fatto crescere tanto, quella febbre, ma ti ha fatto rimanere scemo», gli diceva sempre sua madre. La quale però non poteva sapere che l’influenza gli aveva portato la vocina. In realtà Alberto sono io. Chi ha parlato finora e continua a farlo è la vocina. Tutto è la vocina. Anche la vocina che dice “Alberto sono io”, è la vocina. Vivo costantemente con un narratore nella testa che rielabora ciò che è successo, mi spiega quello che succede, anticipa ciò che sta per succedere.

Su quello che sta per succedere però ho qualche dubbio. Non prevede il futuro. Una volta ho provato ad andare al casinò e la vocina stava tutta eccitata e sicura di sé: punta sul rosso! Punta sul nero! e non ci azzeccava mai. Lì ho capito che era una fregatura, ma tante volte ci aveva preso: non fidarti di quello, guarda che faccia, ti vuole fregare! E aveva ragione. Picchialo, picchialo ora, e ti sentirai meglio! Anche in quel caso ebbe ragione. Spaccagli quella testa di merda!

La vocina è come un vento su una barca, io sono la barca; il vento a volte è brezza, altre tormenta, ma il vento non smette mai, non finisce mai di raccontare. Per quello non faccio battute né rido: sono distratto dalle parole del vento.

Per colpa della vocina sono stato in galera. Tre anni, che poi sono diventati due, che poi sono diventati uno e un altro ai domiciliari. Ora sono uscito, vado in terapia e il dottore mi prescrive psicofarmaci che dico di prendere ma non è vero. Ho trovato lavoro in una pizzeria.
Il problema dei lavori è che devi fare i conti con persone che vogliono conversare, magari ogni tanto vorrebbero che tu le faccia ridere, si aspettano che tu rida alle loro battute, e cosa peggiore di tutte: non si rendono conto della vocina.
So di non essere un cattivo compagno: quando lavoro lo faccio sempre senza interruzioni, non fumo nemmeno, non disturbo, non chiedo, faccio quello che mi dicono senza sbuffare. Sono un po’ lento, ma se c’è da finire un lavoro rimango oltre l’orario di chiusura, non lascio mai nessuno nella merda. Non sono di compagnia, questo sì. Ma perché io lo sono già, in compagnia.


Capitolo 2
Di quando inizio a lavorare

Al primo giorno di lavoro i miei colleghi mi hanno messo in guardia. Prima ci ha pensato Adri, un albanese pieno di cicatrici in faccia, occhi sporgenti, con un’espressione sempre confusa, come se gli fosse appena scoppiato un petardo in tasca. A testa bassa, tagliando velocemente l’impasto, mi ha detto: «quando viene il capo, tu sta’ tranquillo e non ti spaventare. Lo vedi così, ma in fondo non è…»
«In fondo è uno stronzo», ha detto Fabio ridendo. Fabio è un ragazzino. Lavora da meno tempo di Adri e sta al banco a servire i clienti. Dice che dipinge, e io credo davvero che sia un artista.

Era un artista. Di quelli senza pubblico. Queste persone tirano avanti perché si aggrappano sempre a qualche accadimento che pare possa spalancargli le porte del successo: una vendita inaspettata, il bando di un concorso, i complimenti di uno sconosciuto o meglio ancora di una persona famosa. Infatti sono esseri leggeri: nelle tasche mai l’ombra di un quattrino, tanta vitalità dentro gli occhi. Vibrano tutto il giorno di speranza.

Dopo il pranzo è arrivata Adele, in ritardo di due minuti. Era tutta bianca e sudata come la mozzarella, e con il panico nella voce ha chiesto subito se nel retro ci fosse il Signor Sandro. Lì è stato quando ho memorizzato il nome del padrone. In qualche modo ho provato anche a immaginarmelo. Adri le ha detto di no e il viso di Adele si è rilassato all’istante e ha ripreso colore. Si è sciolta la ricca chioma nera ed è andata a cambiarsi.

I padroni fanno tutti schifo perché gli uomini non sono portati per fare i padroni. Sono portati per fare i cani, è questo il problema. Tant’è che si costruiscono guinzagli dorati e li chiamano dio, mamma, papà, moglie, marito... e sognano qualcuno che gli dia da mangiare e li coccoli per sempre. Ma poiché gli uomini devono fare gli uomini, i padroni vanno tutti ammazzati.


Capitolo 3
Di quando conosco il Signor Sandro


Oggi sono tre giorni di lavoro e ancora non ho conosciuto il Signor Sandro, colui che mi dovrà pagare.
Sono sempre a disagio con i colleghi, ma nel locale si respira un clima sereno. Tranne quando squilla il telefono. C’è un attimo di panico, si zittiscono tutti, Adri risponde, parla a bassa voce. Se è tutto ok fa un cenno e tutti si tranquillizzano, almeno fino al prossimo squillo.
Fabio ride sempre, sembra il più tranquillo, è venuto a lavorare anche oggi con una maglietta sporca di colore. Credo lo faccia apposta per far vedere che dipinge. Adele si è vestita più carina e ride spesso alle sue battute.

La simpatia degli altri non dipende tanto dalle loro battute, quanto da…

Dopo una settimana di lavoro è arrivato finalmente il Signor Sandro. Ho capito che era lui appena ha messo piede nel locale: ho notato subito un cambiamento psichico simultaneo alle mie spalle, di tutto il personale al lavoro, ma ho avuto la conferma solo quando, dopo essere avanzato verso il bancone, non si è fermato ed è passato dietro. Ha aperto la cassa, ha preso i soldi ed è entrato in magazzino.

Intorno non avevo più gli stessi volti, ma maschere, manichini intenti a lavorare, con gli occhi sprofondati in una specie di tristezza. Fabio aveva un’espressione che lasciava intravedere aspetti del suo essere che non avrei mai sospettato. Un grande bagaglio di paure.

Il Signor Sandro è uscito fuori dal magazzino, è rimasto lì sulla porta, mi ha fissato e, dopo qualche secondo, mi ha fatto cenno di entrare. Adele mi ha guardato di sottecchi e mi è parso di leggere sul suo volto un misto di compassione e sollievo.
Sono entrato in magazzino.

Il Signor Sandro è un vecchio sui sessantacinque anni, ben vestito, non alto, senza barba. Naso schiacciato, come se glielo avessero rotto in passato con un pugno. Occhi celesti, rapidi e liquidi, sovrastati da sopracciglia crespe e selvagge, bianche come i capelli che porta di lato con un dignitoso riporto.

Ha poggiato il mio contratto su uno scatolone e mi ha sorriso. Ho visto che ha dei denti molto piccoli. Poi mi ha detto che mi vuole in cucina, che mi ha osservato dalla telecamera (l’ha indicata) e mi vuole più dinamico. Ha detto che mette tutto in regola secondo la legge, busta paga con tutte le ore segnate, che paga bene e puntuale entro il 5 del mese, che in questo ambiente non è una cosa scontata. Mi ha chiesto almeno tre volte, in modo molto gentile e preoccupato, se mi stessi trovando a mio agio. Se avessi intenzione di continuare. Perché lui mi avrebbe formato volentieri.
Io ho annuito tutto il tempo, tenendogli sempre gli occhi in faccia e cercando di calmare il mio cuore, perché dalle sue prime parole mi stava schizzando via dal petto. Nella testa ascoltavo la vocina, e di fuori dovevo seguire quella del Signor Sandro, che era la stessa identica voce: avevo davanti a me la vocina. «Va bene, ragazzo? Ti piace questo lavoro?»
Mi piacciono i tuoi soldi. Lavoro perché mi paghi. Come può piacermi un lavoro del genere? Pensi che non abbia di meglio da fare, vecchio scemo?
«Sì, certo. È un buon lavoro.»

C’era solo una leggerissima differenza fra la voce che avevo udito sempre e quella del Signor Sandro: la stessa che passa fra la voce che crediamo di avere e quella che scopriamo riascoltando una registrazione. Da dentro ha un valore che fuori non ha, ma senza alcun dubbio è lei.

Capitolo 4
Di quando il Signor Sandro si rivela. E dell'inguacchio

Il giorno dopo Adele è venuta truccata. Fabio continuava a lanciarle battute e lei rideva. Ma la vera intesa lavorativa con Adele era Adri ad averla. Lavoravano fianco a fianco da oltre due anni e, da quando ero arrivato io, avevo sentito i clienti scambiarli per una coppia almeno in un paio di occasioni. Io stesso a vederli la prima volta l’avevo creduto. Mi è rimasta impressa la faccia di Adele quando è arrivata a lavoro accompagnata dai genitori, e Adri ha lasciato il forno per andare a stringergli la mano.

Sono ben due giorni che li osservo incuriosito, ma ciò che m'interssa davvero è il ritorno del Signor Sandro. Voglio risentire quella voce.
Si è presentato alle tre del pomeriggio, si è fermato a parlare con Adri, il quale abbassava la testa e annuiva ripetutamente, come se volesse scrollarsi di dosso certe parole che io da qui non potevo udire. Poi il vecchio si è messo a dare indicazioni ad Adele e lei ha cominciato a correre su e giù tutta confusa.
Fabio si è venuto a rifugiare in cucina, ma quando ha visto che il Signor Sandro stava venendo anche qui, ha preso ed è uscito di corsa.

«Come andiamo, ragazzo? Tutto bene?» mi ha chiesto con tono paterno. Non mi ero sbagliato, non ero stato tratto in inganno dall’emozione: lui era la mia vocina.
Ho risposto di sì e credo di averlo guardato con un sorriso inebetito. Lui si è fermato, fissandomi con una specie di faccia schifata.
«Mi raccomando, ragazzo, vedi di andare un po’ più veloce, d’accordo? Vuoi un caffè? Come lo prendi, normale, con lo zucchero?» E poco dopo è tornato con il caffè. «Ma ti piace questo lavoro?» mi ha chiesto ancora una volta.



***

Nel locale abbiamo un carrello meccanico che ci consente di passarci le teglie, gli ingredienti e tutto il resto velocemente dalla cucina al forno. Adri sta al forno, mi chiede le teglie e io corro a prenderle e gliele metto nel carrello. Lui mi rimette nel carrello le teglie sporche e io le pulisco e continuo a condire, a darmi da fare in cucina. Se c’è Fabio che lo aiuta me ne sto dentro, altrimenti ogni tanto esco fuori ad aiutarlo anch’io.
Un pomeriggio Adri mi ha chiesto di prendere l'impasto che loro chiamano l’inguacchio e non so a che serve. Comunque lo preparo sempre io: 3 litri di acqua e una bustina intera di questa cosa che non so cosa sia. Sbatti con la frusta ed è pronto l'inguacchio. Mentre vado per metterlo nel carrello entra il Signor Sandro.
Mi guarda come se lo stessi profondamente deludendo.
«Ci hai messo l’intera bustina, ragazzo?»
«Sì, certo.»
«Sicuro?»
È strano, io sono abituato da una vita a sentire quella voce e a darle retta. Parla sempre con me e raramente dubito di ciò che dice. Ma ora usciva dalla bocca di quel vecchio, e stava mettendo in dubbio una cosa della quale ero sicurissimo.
«Sicurissimo», risposi, «l’ho appena fatto. C’è la bustina vuota nel secchio, guardi».
Lui mi strappa la caraffa dalle mani e la va a pesare sulla bilancia. Dice che non si fida. E io, che ho molto lavoro da fare, gli vado dietro e gli ripeto di fidarsi.
Alza la voce, mi ordina di leggere le tacche sulla caraffa perché non ci vede bene. «Dimmi che c’è scritto qua!» urla.
Non so cosa voglia dimostrare. Sta rifacendo l’inguacchio in un’altra caraffa e lo pesa. Si segna il peso su un pezzo di carta, rovescia il contenuto in una terza caraffa e pesa anche quella. Sta sporcando tutto. Non riesco più a stargli dietro. Usa una caraffa ancora più grande, quindi di peso maggiore, ci lascia persino la frusta dentro, e la mette così sulla bilancia. «Come mai pesa di più questa? Eh? Che cazzo dici di averci messo tutto!»
A questo punto penso che sia pazzo. Chi non lo è. E mi lancio in un tentativo disperato. «Ce l’ho messa tutta. Si fidi!» grido in tono supplichevole.
«Chissà cosa cazzo hai combinato», mi dice lui con astio. E getta il mio impasto nel lavandino che avevo appena pulito.
«Tu l’inguacchio non lo fai più! Hai capito, ragazzo? Non lo devi più fare perché non sei in grado.»

Omo demmerda, testa de cazzo. Omodemmerda. Ti ammazzo, pezzo dimmerda. Omo demmerda. Riprovaci e ti taglio la gola.
Sono andato avanti con omo demmerda per diversi minuti dopo che se n’è andato. Ho continuato a lavorare bestemmiando e lanciando tutto all’aria. Poi mi sono voltato verso la telecamera e ho fatto il gesto di tagliargli la gola. Io l’ammazzo se ci riprova. Omo demmerda. Non ti azzardare più ché ti taglio la gola.
La prossima volta gli metto paura. Lo minaccio fisicamente a sto bastardo. Prendo il coltello grande e gli faccio chiedere scusa tante volte.

Il giorno dopo la faccenda dell'inguacchio ho aperto l’home banking e c’era il mio primo stipendio. 15 giorni. Moltiplicando l'importo per due veniva fuori uno stipendio abbastanza buono. 
Quello stesso pomeriggio Adri è venuto in cucina e si è fatto l’inguacchio da solo.
Gliel’ha detto quell’omo demmerda, sicuro. Non me lo lasciano più fare. È assurdo.

Poco dopo entrano Fabio e Adele a mangiare.
Il Signor Sandro: «Come andiamo, ragazzo?»
Mi volto di scatto e invece era Fabio, che lo stava imitando benissimo.
«Veloce, ragazzo, veloce!» e Adele rideva.
Non è che amassi particolarmente la vocina, ma m’infastidiva ancora di più sentirla uscire dalle bocche di tutti.
«L’hai fatto l’inguacchio, ragazzo? Ci hai messo tutta la bustina?»
Adele mi guardava e rideva.

Le persone diventano più belle quando ridono. Fa quasi bene guardarle.

«Ma tu non ridi mai?» mi chiede Adele tornando seria.

Io non so rispondere, davvero.
Continua a lavorare. A te non serve essere felice.
Hai bisogno della tua tristezza. Hai tanti validi motivi per essere incazzato, a cominciare da questo lavoro. Vogliono che ti prenda i tuoi psicofarmaci, vero? Così sparirà la tristezza e anche la vocina. Sicuro! Quale schiavo migliore, di uno schiavo felice?
Non li prescrivono solo a te, non è vero? Ce li tirano appresso, oramai. Ci vogliono felici di vivere in salita e per questo ci dopano. È proprio così.


Capitolo 5
Di quando supero una sfida. Fine

Il Signor Sandro è arrivato dopo altri due giorni di assenza, improvvisamente, mentre Fabio stava servendo al bancone e c’era molta gente.
«Veloce, ragazzo, veloce!» comincia a urlargli davanti a tutti.
«Qualcuno da servire?» chiede Fabio. Ma i clienti erano già tutti serviti e attendevano le pizze che erano in forno. Perciò nessuno rispose.
«Tira fuori la voce, ragazzo, dai!» urlava il vecchio.
«C’è qualcuno da servire?» gridò ancora più forte Fabio. E ancora una volta nessuno rispose.
«Più forte, strilla! Ce l’hai la voce, ragazzo?» insisteva il padrone. E la gente si mise a ridere imbarazzata.
Arrivò una donna a pagare, Fabio le fece il conto. Due pizze e un’acqua: 17.
Il vecchio da dietro si sbracciava, perché secondo lui il conto era sbagliato e veniva 18. Andò a dirglielo all’orecchio e Fabio dovette chiedere scusa alla donna, dirle che si era sbagliato e che il conto veniva 18.
Si venne a sfogare più tardi in cucina, raccontandomi che aveva rifatto il conto, gli aveva fatto vedere al Signor Sandro che era 17, e quello gli aveva risposto che infatti lui aveva detto 17. Dopodiché, quel vecchio stronzo era andato in bagno e, una volta uscito, gli aveva ordinato di andare a pulire. Fabio era entrato e lo aveva trovato in condizioni disastrose. Con la merda perfino sui muri. E secondo lui non c’era da stupirsi se a sporcare a quel modo fosse stato proprio il Signor Sandro.

Ogni giorno ce n’era una. Una mattina sono entrato in magazzino e ho trovato Adele che piangeva. Stavo pensando di abbracciarla, ma lei mi ha anticipato e, singhiozzando, mi ha chiesto di andare a chiamare Adri.


***

Quello stesso pomeriggio il vecchio è piombato in cucina da me, mentre io, che giorno dopo giorno stavo imparando a gestirmi meglio il lavoro, credevo di avere tutto sotto controllo. Si è messo a sbraitare che dovevo andare più veloce. Io mi sono affacciato e ho visto che fuori non c’erano molti clienti, una cosa normale. Ma lui era una belva, neanche mi guardava in faccia, fissava il pavimento e camminava su e giù. «Forza! Veloce! Via tutto! Cazzo! Veloce! Non siete buoni a fare un cazzo. Dormite. In cucina dormite. Fuori dormite. Veloce veloce veloce! Andiamo, ragazzo, cazzo!», ripeteva senza riprendere fiato. Io mi muovevo in fretta per fare un po’ di scena, consapevole del fatto che non sarebbe cambiato niente sui tempi, ma almeno lui si sarebbe calmato. Invece si è messo a contare le palline d’impasto nel frigo. Mi ha detto che avrei dovuto stenderne 200 subito, che lui sarebbe tornato dopo un’ora a controllare.
«Se non ce la fai, non ti richiamo più», ha aggiunto prima di uscire.

Omo demmerda, testa de cazzo. Ti ammazzo, li mortacci tua, omo demmerda. Io te meno. Ti taglio la gola. Con questa colonna sonora nella testa ho ribaltato la cucina tentando l’impresa e macinando bestemmie.  Ero come un frullatore acceso, senza tappo e pieno di farina. Se vuoi mi licenzi, ma prima mi tolgo la soddisfazione di staccarti la capoccia. Così mi licenzi, ma senza capoccia. Lo prendo a calci. Lo caccio dal suo locale. Lo prendo e lo porto in sala davanti ai clienti. Lo corco lì a sto bastardo.

Adri entra in cucina e mi dice: «ma veramente vuoi stendere 200 pizze in un’ora? Ti vuoi far venire un infarto?»
Adri forse mi sta più simpatico di tutti. È strano perché, dopo di me, è quello che fa meno battute e sorride pochissimo.

Le teorie della vocina non sono che cazzate. Non ascoltare la vocina, suggerisce la vocina. In qualche modo riesce ad avere sempre ragione.

Difatti eccola che rientra con le sembianze del Signor Sandro. Il tempo è scaduto.
Sono riuscito incredibilmente a stendere 157 teglie. Non ho rimpianti.
Neanche le conta, dà un’occhiata di sfuggita e mi dice: «ne hai fatte un’ottantina almeno?»
Non rispondo. Lui sembra calmo, poi torna indietro e comincia a lamentarsi. Dice che ne ho fatte troppe, mi guarda avvelenato. «A chi le vendiamo adesso queste?»
In quel momento entra Adele. Quando lo vede sbianca. Lui le dice di andare al forno, prendere tutte le teglie vuote e metterle nel carrello. E a me comincia a dire che devo pulire tutto. Veloce, veloce. Forza. E rimane lì a osservarmi. Mentre poso un contenitore in frigo mi dice di dare una scopata per terra veloce; prendo la scopa e vuole che pulisca il tavolo con una pezza veloce; «asciuga i piatti, veloce!»
Io, non so perché né come, ma provo a fare ogni cosa che mi dice. Non ascolto neanche più la mia vocina, che tanto è lui. Dopo due minuti si sente un rumore meccanico: è arrivato il carrello pieno di teglie. Lo apre subito, «prendi le teglie, veloce, veloce, le teglie, puliscile, lascia stare quello, forza, prendi qua le teglie!»
Io mollo tutto e vado di corsa a prendere la prima teglia con la mano. Mi ustiono e mi cade a terra, con un rumore di metallo che sembra il suono della mia umiliazione. Lui sta ridendo. Fa due passi indietro e mi fissa con un ghigno sghembo e compiaciuto. Ecco di nuovo i suoi denti minuti.

Te l’ha fatto apposta. Sapeva che erano appena uscite dal forno. Te l’ha fatto apposta e ora ride. Ti paga e fa di te quello che vuole.

Mi abbasso, raccolgo la teglia a mani nude. La tengo in mano dal lato corto. Sono teglie in lamiera con i bordi fini che tagliano, non si puliscono mai con acqua, ma solo con una spatola d’acciaio. Sono grasse e arrugginite. Sento le mani bruciare e ne ricavo una sorta di energia che carica me, mentre spegne il sorriso del Signor Sandro. Gliela do da destra a sinistra, di taglio in faccia. Gli prendo la guancia, gliela apro, forse perde pure un occhio, non lo so perché ha la faccia coperta di sangue. È sul pavimento. Mi siedo su di lui e comincio a prenderlo a cazzotti in faccia. Voglio fargli saltare qualche dente e provo ad andarci col gomito, da destra a sinistra, da sopra con tutto il peso del corpo. Sento qualcosa che si smaciulla, ma non capisco più niente della sua bocca: è venuta giù tutta. Voglio provare a dargli dei cazzotti sul naso per vedere com’è rotto. E sì, praticamente è come colpire un raviolo al vapore. Ci perdo subito il gusto, anzi, mi fa senso dopo appena tre destri.
Respiro. Tutto sommato ancora sta bene, si muove, vuole tirarsi su ed emette versi disperati. Mi levo da sopra di lui, ma non ce la fa comunque ad alzarsi.

Ora prendo il coltello grande e gli faccio chiedere scusa tante volte.

Prendo il coltello grande. Ho tempo di sciacquarlo col sapone perché era sporco di formaggio. Fa ridere minacciare uno con il coltello sporco di formaggio. Lo asciugo con calma, tanto più nessuno mi corre dietro.
«Chiedi scusa!» gli dico.
Quello ha la bocca ridotta un macello, poveraccio. Non riesce a dire quasi niente.
«Chiedi scusa!»
Riesce a partorire una parola strana, che sembra un pezzo di carne farcita. Un suono gutturale simile alla vocale A.
È la vocina che non sa più parlare. È solo lamento, puro e primordiale.
«Non hai capito. Mi devi chiedere scusa tante volte!»
Scusa, sento. Scusa, ripete. Scusa, scusa, scusa, e non so più se sia la vocina dentro me, quella del bastardo, o quella della lama che entra ed esce dalle carni. Scusa, Scusa, Scusa, ripete il coltello lacerando i tessuti, uccidendo per sempre la voce del padrone.

Rimasi ad ascoltare il silenzio nella mia mente e fui felice. Mi cadde l’arma dalle mani, e il suono che ne scaturì mi fece sentire nel giusto. Era meraviglioso.
Mi lavai le mani e la faccia al lavandino. Ascoltai anche l’acqua scorrere e ne trassi un gran piacere. Capii che non avevo mai ascoltato nulla come si deve, ed era il suono del presente a farmi godere. Come un bambino, andai ad azionare il carrello solo per udirne la melodia.
Uscii fuori e c’erano Adri, Adele e Fabio. Mi chiesero subito dove fosse il signor Sandro. Io risposi loro ridendo - e visto che ridevo guardai Adele - che il Signor Sandro era dentro, e che probabilmente lo avevo ammazzato. Li feci ridere tutti e tre. Non erano abituati a vedermi felice. Credevano fosse una battuta.

Fine

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