mercoledì 22 aprile 2020

L'assurda storia di Mangesh il guro dei rider, e di Ricky il pellicciaio.


A Mangesh

“Per capire se un vino sa di tappo, prima devi assaggiare il tappo!”  Mangesh ripeteva spesso questa frase, fin dal giorno in cui ci siamo conosciuti, all’incrocio delle scorciatoie, fra una consegna e l’altra. La ripeteva spesso e lo faceva sgranando gli occhi pieni di furbizia. Credo volesse dire qualcosa sulla speranza, o sulla fatica, che saremmo arrivati a bere buon vino prima o poi, sì insomma a goderci la vita. Beh, non ho mai capito cosa volesse intendere esattamente con quella frase, ma faceva il suo effetto, quando la declamava prima di montare in bicicletta, salpando verso un’altra consegna. Ne aveva di frasi del genere, un’altra che ripeteva spesso era “Se vuoi fare una buona spremuta d’arancia, devi tagliare l’arancia all’equatore!” Questa mi risultava ancora più misteriosa.
Mangesh è stato il mio compagno di strada per ben due anni. È stato lui a iniziarmi alla gloriosa arte dei rider di città. Mi ha insegnato tutto. Non sto parlando di trucchetti stupidi per avere più consegne, o per prendere più mance… quella è roba da scuola elementare. Lui mi ha educato. Lo Zen e l’arte della manutenzione della bicicletta. Mi ha mostrato le virtù che deve avere un vero fattorino: rettitudine, pazienza, umiltà e buonumore. Mi ha insegnato a essere orgoglioso del mio mestiere. “Tu entri nelle case della gente. E lasci quelle case meglio di come l’hai trovate, non è così?” Dio, quanta saggezza, il vecchio Mangesh! “Rettitudine, pazienza, umiltà e… coscienza!” (Ogni tanto cambiava l’ultima virtù, ma più per aggiungere che per sostituire), “Soprattutto, ricorda: nessun cliente è migliore di un altro: non saranno età, sesso, colore della pelle, piano senza ascensore o mancia, a farti giudicare un cliente. Il tuo cuore dev’essere puro di fronte a lui”.
Io ero un giovane fattorino e Mangesh era un anziano indiano pieno di esperienza e di carisma, perciò diedi retta ai suoi preziosi precetti. Me li ripetevo a mente prima di dormire, e li assimilavo, diventando giorno dopo giorno un fattorino degno di questo nome. Più tempo passavo con Mangesh, più capivo che ognuno di quegli insegnamenti era carico di significato. Le parole di Mangesh non erano mai dette tanto per dire.
S’incontra un sacco di gente facendo il mio mestiere: ogni appartamento è un piccolo Stato, coi suoi dittatori e i suoi schiavi, coi suoi feriti e i suoi infermieri. S’incontra di tutto, e non giudicare, avere il cuore puro di fronte a chiunque, mi sarebbe stato impossibile se non avessi conosciuto Mangesh. È per questo che non battei ciglio, quando mi toccò consegnare a casa di Ricky il pellicciaio. Nessuno in città voleva consegnare a casa di Ricky il pellicciaio, ma lui era depresso, non cucinava e ordinava sempre da mangiare. Per assicurargli le consegne io gli diedi il mio contatto personale e cominciai a consegnare a casa di Ricky il pellicciaio privatamente, guadagnando in nero qualcosina in più. Lo dissi a Mangesh e lui si rannuvolò. Il pellicciaio era cosiddetto perché era stato accusato di avere scuoiato un intero vicinato di studenti fuorisede. Se l’era cavata in qualche modo in tribunale, per mancanza di prove, s’era fatto qualche annetto dentro, e ora stava ai domiciliari, godendo di un cortile pieno di case sfitte. Ma ciò che preoccupava Mangesh non era il presunto passato di Ricky il pellicciaio, ma il lavoro in nero. Secondo lui non stavo rispettando la deontologia del fattorino. La rettitudine vacillava. Così mi consigliò di continuare, perché qualcuno doveva pur occuparsi del povero pellicciaio, ma mi suggerì di prendere i guadagni illeciti e regalarli ai senzatetto che incontravo per strada. “Per sapere se un vino sa di tappo, prima devi assaggiare il tappo!”
Così continuai a consegnare da Ricky il pellicciaio. Nonostante il suo aspetto inquietante, la stazza di un elefante, le braccia pelose e possenti di un orango e la voce fina di uno psicopatico, grazie all’addestramento di Mangesh io riuscii a non giudicarlo mai. E ci scambiai perfino qualche parola, per rispettare una delle più importanti virtù del fattorino: il buonumore. Consegna dopo consegna, poco a poco Ricky il pellicciaio cominciò a sorridere vedendomi arrivare, e a salutarmi con la mano quando ripartivo. Alcuni senzatetto, i fortunati che ormai mi facevano le poste, riuscirono a togliersi qualche sfizietto.

***

A febbraio del 2020, scoppiò una pandemia che costrinse gran parte della popolazione a rimanere chiusa in casa. Io e Mangesh, in quanto rider, potevamo circolare. Fu uno dei periodi più felici della nostra amicizia. La città si schiudeva a noi, e la primavera ci baciava. Le strade erano libere, io e Mangesh facevamo le consegne insieme per farci compagnia e lui cantava le canzoni indiane da sotto la mascherina. Le nostre bocche erano coperte, ma dagli occhi si vedevano i nostri sorrisi.
Erano già passate due settimane di quarantena, quando qualche nota dolente, sotto forma di posti di blocco, cominciò a far stonare il canto di Mangesh. Lui all’inizio non volle riconoscere i segnali, ma all’incrocio delle scorciatoie c’era una pattuglia che non esiterei a definire, col senno di poi, “pattuglia di bastardi”. Mi ricordo la prima volta che ce li trovammo davanti. I due poliziotti sputarono in terra, proprio dove stava per passare Mangesh. Lui continuò a cantare come nulla fosse e non tirò mai fuori il discorso, ma i suoi occhi quel giorno risero un po’ meno.
Una settimana dopo stavamo facendo una consegna per me, lui mi accompagnava, era il crepuscolo e tirava un’arietta paradisiaca. Ci fermarono. Controllarono e videro che il turno di Mangesh era finito. E lo multarono. Il massimo che gli poterono dare glielo diedero. Lui non disse nulla, il giorno dopo si fermò davanti a uno sportello della posta e pagò la multa. E i suoi occhi tornarono a sorridere.
Nel frattempo il pellicciaio non si faceva più sentire, così un giorno proposi a Mangesh di andare a fargli visita, per assicurarci che stesse bene.
Lui con lo sguardo si mostrò orgoglioso di me e ci avviammo.
Presentai Mangesh a Ricky il pellicciaio, ma per via del virus non poterono stringersi la mano. Ci invitò perfino ad entrare, non aveva ben capito la gravità di quella pandemia, per cui, con un po’ d’imbarazzo, ci trovammo costretti a rifiutare. Ma restammo a parlare almeno dieci minuti per fargli capire che non ce l’avevamo con lui. Lui ci raccontò che non mi chiamava più perché aveva cominciato a cucinare tutti i giorni, aveva scorte di lievito e faceva la pizza un giorno sì e uno no. Era sereno perché ora, non solo lui, tutti quanti dovevano rimanere chiusi in casa. Poi si disse felice del fatto che, “per fortuna”, non aveva vicini molesti. Altrimenti sarebbe diventato matto. “Ho visto come suonano dai balconi, quegli scemi”.
Parve contento della nostra visita, e ci salutammo in modo molto cordiale.

Quell'anno la primavera aveva i bollori, con le sue giornate ci convinse subito a lasciare le giacche in casa e a girare in maglietta, ma il virus era sempre lì in agguato. Negli ospedali l’emergenza non accennava a scemare, la quarantena veniva prolungata di settimana in settimana e per strada c’eravamo solo noi rider, le ambulanze e, purtroppo, un numero sempre maggiore di poliziotti. All’incrocio delle scorciatoie le pattuglie erano diventate tre, messe a imbuto. Quando ci passammo davanti, quattro furono gli sputi in terra. Un poliziotto si mise a cantare scimmiottando le canzoni indiane di Mangesh. Lui non si scompose neanche quella volta. Era tutto preso dall’osservare la situazione dal punto di vista del fattorino: i negozianti vendevano solamente a domicilio e i rider erano ogni giorno di più. Mangesh sembrava andarne fiero, ma allo stesso tempo gli si stringeva il cuore a vedere così tanti ragazzi e ragazze svolgere quel lavoro senza passione.  Mi stava spiegando le sue teorie sul sentire la scia delle consegne, quando ci fermarono di nuovo. Stavolta andò peggio. I poliziotti mi dissero di andare via. Mi sventolarono i manganelli in faccia e io, per sentirmi al sicuro, dovetti raggiungere la fine dell’incrocio. Da lì vidi tutta la scena: non so perché né percome, sono sicuro che Mangesh non è il tipo di persona che provoca le forze dell’ordine... Ho visto come gli dava i documenti e poi, all'improvviso, il poliziotto gli ha mollato una pizza in faccia. Il suono è arrivato fino a me. Ha riecheggiato per le strade deserte che tanto piacevano a Mangesh. Lui ha perso per un attimo l’equilibrio, poi ha raccolto il documento che gli avevano buttato a terra fra gli sputi e, rimontato in bicicletta, mi ha raggiunto alla fine dell’incrocio. “Vedi, sono ragazzi, fanno il loro lavoro, ma senza rettitudine né buonumore”.
Io mi lasciai andare in un commento di disprezzo e Mangesh, serio, mi rispose che se fossimo stati attaccati da dei criminali, avremmo dovuto chiedere aiuto alla polizia. Per cui non aveva senso prendersela con loro. Io abbassai la testa e gli diedi ragione.
Col passare del tempo però, gli abusi divennero all’ordine del giorno. Sicuramente c’era un accanimento personale, forse razziale, nei confronti di Mangesh, ma presero di mira anche me. Ci informammo: non eravamo le uniche vittime di quelle tre pattuglie all’incrocio delle scorciatoie. Alcuni nuovi rider avevano deciso di abbandonare; certe consegne non erano arrivate a destinazione; i senzatetto ci raccontarono di essere stati picchiati senza motivo più di una volta. Era come se, con le strade vuote e la città tutta per loro, quei sei bulli in divisa si sentissero onnipotenti. D’altronde quel bivio era un punto di passaggio, un intreccio di strade per ogni direzione, ma non c’erano palazzi, né negozi: un crocevia privo di testimoni.
Mangesh faceva finta di nulla, ma non cantava più e, senza il bisogno di dirci niente, cercammo di evitare il più possibile l’incrocio delle scorciatoie. Anche se questo voleva dire allungare la strada di un bel po’. 
Per diversi giorni non incrociammo più gli sbirri. È così che funziona il tempo: dopo un po’ che passa la paura uno si dimentica i problemi, e tutto da lontano assume contorni più tenui. Mangesh aveva già perdonato i poliziotti che lo avevano picchiato, e soprattutto aveva a cuore la consegna che gli era stata affidata. Disse che non voleva presentarsi a casa del cliente con del cibo freddo, perché ora che la gente stava chiusa in casa il nostro compito era ancora più importante e delicato, perciò era il caso di andare alla rotonda delle scorciatoie e imboccare quella che più ci conveniva.
Non fu possibile.
Mentre stavamo passando, una delle tre gazzelle fece un’improvvisa retromarcia, speronando la bici di Mangesh quanto bastò a farlo cadere. Si fece male, me ne accorsi dall’espressione del suo volto. Scese un poliziotto e, come nulla fosse, gli chiese l'autocertificazione. Lui gliela diede, quello portò il foglio in auto. Dopo cinque lunghi minuti tornò da noi e disse “Allora? L'autocertificazione dov'è?” Mangesh aveva già capito l’antifona, e non gli diede la soddisfazione di cadere nel tranello. Si prese la multa in silenzio. Gli altri mi guardavano e ridevano. Sembravano soddisfatti, perché ci lasciarono andare. “Andate a fare il vostro lavoro di merda…” disse il più giovane di loro.
Mangesh rimontò in sella per portare a termine quella consegna. Arrivò all’indirizzo e salì al piano. Riscese poco dopo con il pacchetto ancora in mano. Il cliente lo aveva rifiutato perché era arrivato in ritardo e parte del cibo era fuoriuscita per via della caduta. “Per oggi basta”, disse Mangesh. Continuammo a pedalare lentamente. Io ero forse più scosso di lui, aspettavo un suo commento, una frase colma di saggezza che potesse schiarirmi le idee. Invece Mangesh non diceva niente. Fece il giro dei senzatetto, parlò a bassa voce con ognuno di loro, ripartendo a ciascuno un po’ di quel cibo rifiutato.
Quanta ammirazione avevo per quell’uomo! Quant’era bella e piena di valore la sua vita! Mi si avvicinò con occhi pieni di speranza e mi disse “chiama Ricky il pellicciaio!”
Volle andare a prendere Ricky il pellicciaio e lo fece salire sulla canna. Un vecchio indiano che pedalava portando un elefante sulla canna della bici.
“Cosa vuoi fare, Mangesh?”, gli chiesi.
“Riprendermi il buonumore”, mi rispose lui col fiatone.
Capii le sue intenzioni quando arrivammo nei pressi dell’incrocio, e lui, come un militare, fece cenno ad alcuni senzatetto di accerchiare le tre pattuglie.
Avevamo più alleati di quanto credessi. I senzatetto uscivano dai cespugli a decine, alcuni stavano nascosti sui trabattelli di un cantiere, altri accovacciati dietro gli spartitraffico: l’invisibilità era la loro croce, ma anche la loro forza.
Cercai di far ragionare Mangesh, facendo tesoro di tutti i suoi insegnamenti. Ora toccava a me, metterlo sulla retta via.
“Se dei criminali ci attaccassero, noi chiederemmo aiuto alla polizia. Giusto? Lo hai detto tu, ricordi?”
“È corretto”, mi disse sospirando, “quindi, converrai con me che, se ad attaccarci è la polizia, noi dobbiamo chiedere aiuto ai criminali. E qui subentra il nostro amico Ricky”, disse lanciando un segnale al pellicciaio.
Lo spettacolo fu agghiacciante. Sembrava che ognuno di quei senzatetto avesse qualche conto in sospeso da sistemare. L’accerchiamento fu rapido ed efficace. Quel vecchio figlio di puttana di Mangesh era inviperito, tirava calci nella mischia con polpaccio da ciclista e recuperava a vista d’occhio il buonumore. L’aria umida della notte scendeva su di noi come le goccioline sui calici di birra fresca. Sudammo come a una partita di calcetto. Poi, a partita finita, ritornammo a distanziarci socialmente come da norma, scansandoci per fare largo al grande Ricky il pellicciaio. Non gli avevano dato l’ergastolo solo perché non erano mai riusciti a trovare i corpi dei fuorisede. Perciò era l’uomo giusto per noi. Mangesh gli disse “Tieni sempre a mente le tue virtù: mano ferma, freddezza, e pulizia. Comincia pure dalla calotta, ma ricorda: per fare una buona spremuta, devi tagliare l’arancia all’equatore”. Il buon vecchio Mangesh era completamente andato. Ma fu un piacere vedere all’opera il pellicciaio, fece un lavoretto di fino. Il materiale organico entrò tutto nelle nostre bag per la consegna. Tutti e sei li aveva fatti entrare in due bag. Sashimi di poliziotto.

Quello fu il giorno più bello della nostra carriera. Due anni mi ci erano voluti, insieme a Mangesh, ma alla fine ero pronto, avevo visto tutto quello che c'era da vedere riguardo alla gloriosa arte dei rider di città.  Lui, che come ogni maestro aveva terminato la sua ultima lezione con un colpo da maestro, poteva finalmente andare in pensione con il cuore in pace. Io perpetuerò i suoi precetti, e un giorno forgerò nuovi rider.
Ma oggi non dimentico il vecchio Mangesh. Ogni tanto sento il bisogno di ascoltare i suoi consigli e ci diamo appuntamento. Ci si vede spesso a casa del pellicciao, che è una personcina davvero adorabile. Un giorno, dietro consiglio di Mangesh, parlai col pellicciaio per chiedergli una cosa: “Perché non facciamo occupare ai senzatetto tutti questi appartamenti sfitti qui da te?”
“Non se ne parla”, disse Ricky il pellicciaio.

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