mercoledì 3 giugno 2020

L'edicola


L’edicola era tutto. L’edicola era mio padre.
Era il luogo in cui mangiavo, facevo i compiti, giocavo, imparavo a campare. Niente chiacchiere per mio padre, solo esempi e sospiri. Come quella volta in cui certi turisti americani, per pagare cinquemila e trecento lire, ce ne misero in mano ottantamila: un pezzo da cinquanta e tre da dieci. Mio padre, che in inglese sapeva dire tichet for de bas, uan, ciu, tri, gli spiegò che dovevano stare attenti, se volevano tornare in America con le mutande.
L’edicola non chiudeva mai. La domenica, per stare con mio padre, andavo anch’io a fare l’apertura alle quattro di mattina. A quell’ora arrivavano i trasportatori: figure torbide come fantasmi di confine; esseri da tenere buoni, starci attenti. Rubavano agli edicolanti più ingenui per rivendere a quelli più furbi. Mio padre ci teneva e ci riusciva, a non essere né ingenuo né furbo.
Poi passava il furgone con i cornetti caldi per il bar, ma il bar apriva due ore dopo, perciò per due ore i cornetti li tenevamo noi. Ci sceglievamo i più belli e facevamo colazione, insieme a un vecchio poveraccio che passava spesso per andare in un campo a fa’ la cicoria. Mio padre guardava quel vecchio con commossa ammirazione dicendomi questo, questo signore qui è un grand’uomo, come se conosceva la sua storia e fosse così potente da non potermela nemmeno raccontare. Il vecchio si prendeva il complimento e pure i cornetti che mio padre gli offriva. E all’alba, ogni volta mio padre sembrava sorpreso, indicava il primo pezzetto libero di cielo e mi diceva guarda!, come fosse merito suo.
Io in quella scatola e in quel piazzale mi sentivo importante: potevo avere soldatini, figurine, biglie di vetro. Mio padre mi diceva scegli!, con un orgoglio accecante, che mi sa che ricopiava la faccia mia. Poi mi sparavo le corse coi carrelli del supermercato, giocavo a pallone coi marocchini che aspettavano la corriera, che in realtà erano del Senegal, o del Camerun, ma tanto all’epoca tutti i neri si chiamavano o vucumprà o marocchini. Con loro ho imparato il passaggio di piatto preciso, ché bisognava essere precisi, se no la palla finiva per strada e succedevano gli incidenti. Ci avrò giocato una ventina di volte, ma una ventina di volte quando sei ragazzino è una vita. Come quando si avvicinava capodanno e arrivava il napoletano a rifornirci di botti. Ci piacevano i botti. Più crescevo più grandi ne potevo sparare. Dai pop-pop alle miccette, ai miniciccioli, tric e trac, poi i magnum e i mefisto, fino ai razzi e le bombe e allora ecco che di botto m’ero fatto grandicello. Avevo imparato tanto, là dentro. L’amore per la letteratura, per esempio, non l’avevo conosciuto a scuola, ma all’edicola con i grandi classici che uscivano come inserto il lunedì. Un’idea politica, se mai ne ho avuta una, non me la sono fatta mica riflettendo chissà quanto. È stato sempre merito dell’edicola: quelli che compravano Il manifesto, L’unità, Liberazione, erano in genere persone buffe, simpatiche, dagli occhi buoni, e mio padre ci scambiava qualche battuta; mentre quelli che chiedevano il Giornale, Libero, Il Tempo, erano persone arrabbiate, rigide, e mi stavano sul cazzo. Mi studiavo i clienti e quelli che mi erano simpatici li ricopiavo, mi leggevo quello che leggevano loro.
Dicono che alla lunga il piombo dei giornali faccia diventare pazzi. Ma non credo sia per questo che mio padre si ammalò.
Stava bene quando me ne andai la prima volta. Io sparivo per mesi, andavo in giro, stavo lontano da casa, e come biasimarmi. Ma tornavo spesso, mi fermavo un periodo a ricarburare, perché era comodo. Incrociavo mio padre alle quattro di mattina: io rincasavo e lui andava ad aprire. Una di quelle mattine lo beccai a calarsi gli antidepressivi di mia madre. Gli feci il cazziatone prendendo spunto proprio da lei, da quella volta che mi aveva beccato la ketamina a me. Uguale. Ti fanno male, gli dissi. E lui mi rispose ma no! mi fanno stare bene, mi danno un po’ di carica per affrontare la giornata. Si vede che dopo che l’ho sgridato ha smesso di prenderli di colpo, e non si fa. Quella è stata la prima volta in cui l’ho ammazzato. Poi ci si è messa la crisi, internet, nessuno aveva più bisogno delle edicole, i soldi non bastavano più, e allora mio padre è diventato matto. Ma da un giorno all’altro. Lo so perché io c’ero. Lo sentii rientrare una sera, cantava nella tromba delle scale, con poco fiato, sconnesso, con quella voce stridula tipica dei pazzi, che pare fatta di polistirolo. Dovetti rinunciare subito alla vita del coglione e gli dissi papà, ora tu te ne stai a casa e a lavorare ci vado io. 
Funzionò più o meno bene, la prima settimana. Se ne stette sotto al letto, sotto al letto in cameretta mia, a scrivere cose assurde su pezzi di carta e di giornale: frasi sul sesso, ricordi, lamentele rivolte al sindaco, ai dottori, e appiccicava questi fogli dappertutto. Poi cominciò a venire all’edicola, perché non resisteva. Importunava i clienti con battute sessuali, loro non capivano, perché lo conoscevano normale. Uno pensa sarà una giornata storta, sarà ubriaco, invece no, era pazzo. Io me ne stavo sedici ore là dentro senza neanche prendere lo stipendio. Avevo licenziato un signore che ci aiutava, perché non c’erano soldi per pagarlo, e ci stavo dalle quattro di mattina alle otto di sera. Eppure nel cassetto ci rimanevano sempre le stesse due tre banconote che un altro po’ potevo dargli un nome. A volte ci sospendevano la distribuzione dei giornali e dovevo fare il giro degli altri edicolanti per farmi dare qualche copia a prezzo nostro. Non si è mai vista un’edicola senza giornali. Così, a differenza di mio padre, io non ci tenni più di tanto a non essere né ingenuo né furbo, parlai con i trasportatori e optai per l’essere furbo. Mi feci portare le copie rubate, le vendevo con un guadagno maggiore, e tutto quello che avanzava lo davo di resa. Lui se ne accorse e si lamentò, ci fu una bella litigata. Pure da matto era sveglio e pieno di princìpi. Presi a calci gli espositori, sputai sulle riviste, presi a pugni le vetrine, riversai tutta la mia violenza sull’edicola e la gente si fermò a guardare. Pure mio padre si fermò. Il suo sguardo tornò per un lungo momento a essere sano, lucido, come gli avessi risucchiato la pazzia, e mi disse non credevo te la prendessi così. Ma sembrava implorarmi non mi rubare anche questo. Voleva la sua via d’uscita.
Ormai era una guerra fra due innamorati, su chi doveva uccidere chi. Lui se ne uscì con una bella mossa: vendere la mia stanza all’avvocato vicino di casa. Sfondarono la parete e si presero la mia stanza; e con quei soldi ci pagammo quelli che a Roma si chiamano i buffi, i debiti. Io me ne dovetti andare a vivere in casa di amici. Sedici ore di lavoro e otto di divano; la sera mi facevo una canna, una partita alla playstation e crollavo. Questa storia andò avanti per mesi, durante i quali mio padre venne ricoverato al reparto psichiatrico del Santo Spirito. Voglio sorvolare su quel luogo. Dirò solo che mio padre entrò lì che era felice, esageratamente felice, troppo felice, euforico era il termine utilizzato dai dottori. Ne uscì alcuni mesi più tardi, sedato, vinto, svuotato. I suoi occhi, da che erano accesi di una luce inquietante, ora erano opachi come plexiglass. Se ne stava impalato a fissarmi, le poche volte che andavo a trovarlo, nella casa di venti metri quadri in cui erano rimasti lui e mia madre, circondati da mobili ammassati e calcinacci.
Io continuavo a prendermi cura dell’edicola perché l’edicola era tutto, era mio padre. E dopo sedici ore non avevo tempo né forza per passarli a trovare. Non potevo controllare che lui prendesse le medicine, questa volta sì, prescritte da un dottore. E non potevo fidarmi di mia madre. Lui mi chiamava, mi domandava come stessero andando gli incassi e io mentivo. Prendevo i soldi dal cassetto e gliene davo un po’. Non sapevo cosa fare, e continuavo solo a stare all’edicola perché l’edicola credevo fosse tutto, credevo fosse mio padre. Lui mi chiamava e mi diceva penso tutto il giorno a come ammazzarmi. Così io chiudevo e andavo lì. Lui davanti a me non le diceva quelle cose. Non parlava. E dopo un po’, quando mi sembrava di avergli detto parole giuste e potenti, me ne ritornavo a casa degli amici a riposare.
L’ultima volta che venne all’edicola mi disse di essere contento perché aveva ritrovato un figlio, e io ci rimasi un po’ male perché pensavo di esserci sempre stato. Mi abbracciò piegando la testa, poggiandola sopra la mia spalla, un gesto che non aveva mai fatto, e per la prima volta mi resi conto di essere di poco più alto di lui. Fu l’ultima volta che vidi la sua faccia. Io, in fin dei conti, mi dimenticavo costantemente che lui fosse matto. Lo sapevo, ma conoscevo troppo bene la persona buona, intelligente, sensibile che stava sotto quella coltre di follia. Credevo fosse forte, e che sarebbe tornato. Avevo, per inerzia, totale fiducia nella sua persona. E volevo scuoterlo, ed ero stanco, e lui mi chiamò un giorno in cui non mi avevano consegnato i giornali, e mi offese dicendomi ancora una volta di volersi ammazzare, e io gli risposi e ammazzati. Quella fu l’ultima volta che uccisi mio padre.
Il giorno dopo mi telefonò la portinaia, mi disse è successa una cosa brutta, tuo padre ha fatto una cosa brutta, lo hanno portato all’ospedale. Io in quel momento stavo fatto, ma il THC evaporò in un momento e fui il primo ad arrivare in ospedale. Dissi dove sta, lo voglio vedere, ma un medico mi agitò una mano pietosa davanti alla faccia, dicendomi di no, noi lo sconsigliamo. Io ebbi paura ma ci riprovai; non avevo neanche la certezza che fosse morto, ma non volevo chiederlo direttamente, e quello scuoteva la testa e diceva è meglio di no. Infatti pure i becchini gli avevano messo un velo sulla faccia. C’era questo corpo nella bara con la faccia coperta per decenza, che però si vedeva che la faccia era schiacciata, come un pallone bucato. Uno dei becchini mi disse che dovevo andare fiero di mio padre perché era un convinto, che sono pochissimi i convinti. Cioè era uno di quelli che si buttano dalla finestra e durante il volo non si pentono mai. Si vedeva perché non aveva segni sulle braccia. Aveva vinto perfino l’istinto di ripararsi.
Io la sera sono andato a dormire nel letto di mio padre. Mia madre se l’era presa mia zia. Ho incontrato la portinaia che si lamentava perché il sangue era difficile da pulire. Sono andato poi la mattina ad aprire l’edicola. Mi sono sorpreso dell’alba, che continuava imperterrita a spuntarsene senza più l’aiuto di mio padre. Incassai quello che potei, mi misi i soldi in tasca, poi chiusi l’edicola per sempre e me ne partii lontano. La lasciai lì, a decomporsi sul ciglio della strada.

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