venerdì 11 giugno 2021

Tisanina n°8


Aristotele sosteneva che per raggiungere il bene e la felicità al di fuori di una comunità bisogna essere spregevoli, oppure bisogna essere più che umani, cioè degli dèi. Ma Aristotele non conosceva i poeti robot. D'altro canto potrebbe darsi che dio sia un essere spregevole, sì, insomma, potrebbe darsi che esseri spregevoli e dèi abbiano molto in comune. Oppure può essere che i poeti robot siano degli dèi, perché scrivono poesie meravigliose. 

La prima a programmare i poeti robot fu una filologa nerd molto schiva e solitaria, Verena Fumarazzi, di Biscette sul Crostone (2674-2789). Verena era un'amante delle poesie e delle parole, le prese tutte, le parole, e le inserì nei circuiti robotici, corredandole di etimi e significati, arricchendole con toni di voce e significanti, affinché i robot potessero declamarle con trasporto, e implementò la modalità randomica, sulla quale agiscono fattori esterni come la luce, la temperatura, le notizie del tg: in poche poetiche parole, fece sì che i robot potessero scegliere i versi col cuore. 

Questi robottini scrivono una poesia dietro l'altra e sono tutte belle e misteriose, tant'è che gli umani del 3000 si chiedono da dove vengano certe meraviglie, chi le scrive veramente, un ente superiore?, come nasce l'ispirazione? Come fanno ad averla perfino i robot e certe persone no? Alcuni malfidati sostengono che questi ammassi di ferraglia lirica siano dei copioni, dei falsari, plagiatori di certi versi di origine umana ormai dimenticati. Il filosofo Beltramo da Sabaudia non è d'accordo, ha scritto un libro su questo tema in cui dice tutto e niente. Dice che osservando i robot ha capito che dio non è un essere, quindi non è né spregevole né magnifico, e non è nemmeno un robot. Dio, dice Beltramo, è solo il caso, che è sempre presente e che vive fra gli umani come fra i circuiti informatici, è matematica irrisolvibile che ci punzecchia, che trasforma le nostre tempeste sinaptiche (non a caso Zeus ama lanciare fulmini, dice Beltramo) in stanghette che formano lettere, in suoni che rievocano immagini, in piogge di motoneuroni, in maremoti di sentimenti: è così che nasce una poesia qualunque, quella di un poeta d'altri tempi ma anche quella di un robot, magari un robot obsoleto, abbandonato in una discarica in Antartide, rimasto solo a osservare come si scioglie l'ultimo iceberg, che è poi quello sul quale si trova... E prima di scaricarsi completamente e d'incontrare l'acqua, con l'ultima tacchetta di batteria che gli resta, il poeta robot di getto scrive:


Si sta come d'estate in Antartide
gli iceberg:
trafitti da un raggio di sole
che c'illumina d'immenso
e il naufragar ci è dolce
nel più bello dei mari:
quello che non navigammo.












3 commenti:

Germana ha detto...

Un racconto delizioso,
Grazie Ciro!
p.s. Io comunque mi ero accorta della mancata pubblicazione di ieri, ma ho pensato solo che ogni tanto, gli schemi, si possono saltare.

Massimiliano ha detto...

Grande Ciro!

Ciro Teleffe ha detto...

Grazie Germà